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AIDAinformazioni
ISSN 1121-0095, trimestrale
anno 21, numero 1, gennaio-marzo 2003

Schegge 
L'informazione di guerra al femminile 
Domenico Bogliolo
Università degli studî di Roma "La Sapienza", domenico.bogliolo@uniroma1.it 
Lo spunto viene da una mostra di due anni fa della Library of Congress: Women come to the front. Journalists, photographers and broadcasters during World War II, che documenta per esteso di otto donne [1] (su 127) le quali informarono sulle operazioni belliche in tutti i fronti, compreso quello interno, sul Pacifico e in Europa. Ne esce lo spaccato di una generazione di giornaliste che, genericamente attiva sul fronte del femminismo americano per conquistare parità di considerazione e fiducia verso i propri colleghi maschi, trovò proprio nelle missioni di guerra uno strumento di emancipazione.

La guerra offrì loro, infatti, inedite opportunità professionali (insieme con pericoli reali) [2], come esito di un movimento di emancipazione vecchio, negli Stati Uniti, di almeno un paio di secoli. Nel 1638 Jose Glover fu proprietaria a Cambridge, Mass., della prima stamperia impiantata nelle Colonie. Nel '700, Mary Katherine Goddard, Anne Royall e altre condussero in forma famigliare i primi giornali nell'East Coast e per tutto l'800 l'accesso delle donne all'educazione scolastica consentì la pubblicazione di diversi "women�s news", scritti dalle donne per le donne.

La presenza di giornaliste nelle operazioni belliche fu, comunque, fin quasi dall'inizio un dato costante nella storia americana: Jane Swisshelm nella guerra civile, Anna Benjamin in quella ispano-americana, Peggy Hull nell'ultima parte della "grande guerra". Furono però le iniziative della First Lady Eleanor Roosevelt negli anni della depressione del '29 che diedero il colpo definitivo alla svolta professionale delle giornaliste: la sua Press Conference Association, riservata alle donne, accreditò molte giornaliste presso la Casa Bianca e convogliò importanti risorse al Women's National Press Club che, sorto nel 1919, dovette tuttavia aspettare il 1971 per vedersi riconosciuto dalla controparte maschile del National Press Club. La maggior parte delle corrispondenti della seconda guerra uscì dalla "scuola" rooseveltiana, come Doroty Thompson che intervistò Hitler nel 1931 per "Cosmopolitan" - e ne fece un ritratto così veritiero che ne ricavò l�espulsione dalla Germania non appena Hitler conquistò il cancellierato.

Lo scorso 7 marzo l'ILO, International Labour Organization, ha celebrato a Ginevra questo anno internazionale della donna con una giornata dedicata alle giornaliste [3]. Katie Adie della BBC (presente in tutte le principali crisi internazionali, dalla prima guerra del Golfo a quella di Bosnia) ha confermato un dato che possiamo già rilevare osservando gli "show" televisivi quotidiani di questa guerra in Iraq, e cioè che più di metà delle persone coinvolte sono donne (ed è donna poco meno della metà di coloro che elaborano le notizie prima della messa in onda o della pubblicazione), sia come corrispondenti sia come personale civile non combattente: «La guerra non è un gioco da ragazzi» ha concluso Adie, volendo anche significare con questa battuta che le "ragazze" ne sono ormai una componente fissa. Secondo Juan Somavia, direttore generale dell'ILO, la "scuola" femminista rooseveltiana ha infatti avviato un processo che, alla lunga, ha consentito alle giornaliste di passare «from the fashion page to the front page and the front line» aggiungendo che, così, «they have broken through the glass ceiling in order to break the news» anche se ancora, prosegue, nonostante l'aumento delle opportunità il soffitto di vetro rimane intatto e le differenze di retribuzione restano una realtà.

Quali sono, dunque, queste differenti prospettive dell�informazione al femminile? Le partecipanti alla giornata ginevrina sono concordi: le giornaliste sarebbero obbligatoriamente più affidabili perché c'è, intanto, da superare quell'eterno fossato culturale per il quale le giornaliste - ma non solo loro - devono fare meglio e di più dei loro concorrenti maschi per ottenere (quasi) i medesimi riconoscimenti («you have to run while men can walk» ha osservato la Adie); vengono rilevate, inoltre, differenze di contenuto, di approccio, di enfasi poste su aspetti diversi della guerra, per cui risulta che le giornaliste sarebbero più attente e sensibili alle conseguenze del dopo-guerra, specialmente dal punto di vista della condizione sociale e culturale delle donne. Ancora la Adie, proseguendo nella sua metafora: «Boys like toys, but women reporters often look for the wider issues of how society copes with conflict and attempts reconstruction».

Rym Brahmini della CNN ha testimoniato a Ginevra, comparendo in collegamento via satellite da Baghdad, come la situazione laggiù sia tesa soprattutto per le donne: sono scoraggiate e si rifugiano nella religione per trovare conforto sotto eventi che stanno demolendo le loro certezze. In effetti, ha osservato la nigeriana Christine Anyanwu (che s'è fatta tre anni di carcere per aver riferito di un presunto colpo di stato contro l'allora presidente nigeriano Sani Abacha), questo bisogno di guardare in modo più approfondito alle lotte sociali delle donne deve andare oltre l'evento della guerra e consolidarsi come tematica giornalistica anche in tempi di pace; lei stessa mette regolarmente a disposizione la sua radio di dotazione professionale per creare, non solo in Africa, una risorsa di discussione e di confronto tra voci femminili che, altrimenti, non sarebbero udite. Anche Nadia Mehdid (prima giornalista ad accorrere a Baghdad come corrispondente estera di "Asharq Al Awsat") è della medesima opinione: le giornaliste hanno l'occhio allenato per altri conflitti, oltre che a quelli guerreschi, come i conflitti sociali, quelli per l'informazione, gli estremismi e tutte le forme esplicite e sottili di violenza dirette contro le donne in tutte le società.

Chissà se si riesce a puntualizzare il lato sociale del fenomeno. Calling the ghost: a story about rape, war and women è un documentario girato dalla giornalista sudafricana Mandy Jacobson per la Women Make Movies che descrive, per bocca delle bambine protagoniste, il ratto subito in un campo di prigionia serbo - il responsabile, tuttavia contumace, è stato poi giudicato colpevole di crimini di guerra. Sebbene il film sia distribuito solo in circuiti femminili di New York, è stato utilizzato dal Tribunale criminale internazionale nel perseguire i responsabili di violenze nelle recenti crisi iugoslava e ruandese tanto che, per la prima volta nella storia, un tribunale ha potuto dichiarare il ratto delitto contro l'umanità. Racconta la giornalista che mentre i suoi colleghi maschi sciamavano per la Bosnia chiedendo ad alta voce: «Ci sono qui donne stuprate che parlino inglese?», lei e le colleghe si ponevano come obiettivo prioritario non tanto il "che possiamo fare per le donne povere in Bosnia?" quanto, piuttosto, il come la violenza perpetrata contro le donne potesse entrare come componente di base nelle loro stesse vite di giornaliste occidentali e quali fossero i meccanismi che legavano la cultura della violenza in tempi di pace a ciò che succede in tempi di guerra [4].

Risponde virtualmente, sulla base della situazione balcanica, Zarana Papic' dell'Università di Belgrado sostenendo che, dopo la caduta del socialismo iugoslavo, le donne si siano trovate in situazioni ancor più difficili, in quanto si è avviato un processo sistematico di de-modernizzazione, sostenuto dalle patriarchie famigliari, dai leader nazionalisti e dalla Chiesa ortodossa, per i quali solo motore della storia è l'uomo maschio mentre cómpito della donna non è che dare un contributo biologico alla grandezza serba. È per questo, osserva, che le donne serbe si sono trovate a combattere contro le donne albanesi. Speravamo, continua, che il forte movimento femminista che c'era in Yugoslavia durante il socialismo avesse attecchito maggiormente nelle coscienze, ma ciò non è stato che un'illusione.

La sua collega Marina Blagojevic' rincara la dose: nell'area balcanica, anche le giornaliste hanno la loro parte di responsabilità e molte hanno partecipato come i colleghi maschi alla propaganda nazionalista. Se questi ultimi parlavano alla ragione, loro parlavano maggiormente al cuore, rinfocolando nelle donne l'appartenenza razziale e ricacciandole, di fatto, indietro nella Storia. Il risultato è stato una misoginia generalizzata, ben alimentata dal ghetto kitsch dello stile predominante nei giornali femminili. Non è quindi sorprendente che, poi, e non solo durante la guerra, le donne siano state viste preminentemente come oggetto sessuale. Quelle, poi, che «overcrowded the media with their legs but not with their brains» e che rivelavano di avere ambizioni e aspirazioni, sono state bollate nella stampa femminile come poco meno di streghe [5].

A complicare quest'attività professionale, la violenza viene esercitata anche contro le giornaliste stesse, come ci ricordano i casi di Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli e gli episodi di percosse e altro subiti recentemente nel corso della "liberazione" dell�ex-Yugoslavia. Maggie O'Kane del "Guardian", impegnata nel denunciare stupri sistematici nella Bosnia orientale, ha supposto che molti di questi fossero dovuti al fatto che il 40% dei professionisti impegnati nei reportages di guerra fossero giornaliste [4].

Ci sono, ovviamente, anche voci contrarie, come la testimonianza di Sherry Ricchiardi (docente di giornalismo all'Indiana University) che teorizza una quasi-intangibilità del giornalista di guerra: «eravamo immobilizzati al suolo, noi giornalisti, per il tiro dei cecchini appena fuori da un villaggio, quando un soldato croato ordinò un contro-fuoco di copertura e ci aiutò a salvarci. Più tardi, quando gli chiesi perché avesse rischiato la vita per noi, egli rispose: "Per noi, un giornalista vale mille fucili perché racconterete al mondo che cosa avete visto qui"» [6].

In ogni caso, il rischio è evidente, e non solo della vita. Recenti studi dell'International Federation of Journalists e del Freedom Forum European Centre di Londra hanno rilevato le situazioni di stress post-traumatico connaturate con questa professione, insieme con le quasi croniche alterazioni della vita quotidiana dipendenti dal disagio, che se inducono, da un lato, al consumo di ipnotici e di eccitanti per sopravvivere in realtà difficili, dall'altra ostacolano la regolarità della conduzione della vita famigliare. Qui le percentuali di solitudine affettiva, divorzi, alcolismo e altre droghe, ferite corporee e forme di depressione grave colpiscono uomini e donne indifferentemente (ma mentre i giornalisti in missione di guerra berrebbero alcolici - per fare un esempio - due volte di più dei loro colleghi in patria, le giornaliste - come tutti i puri dati non si sa come interpretarlo - lo farebbero cinque volte tanto) [7]. Heidi Dietrich riporta tuttavia numerose testimonianze del cameratismo e dell'aiuto reciproco che si sviluppano tra i giornalisti in guerra, fin quasi a diventare un sostituto della famiglia: «we share our bread and cigarettes and fears in the field», il che serve in parte a bilanciare, in parte a incoraggiare le ricompense della professione: fiumi di adrenalina, opportunità per avanzamenti di carriera, viaggi, eccitazione e «the chance to make a difference» [8].

Non è certo un caso se l'International Women's Media Foundation istituì nel 1990 i Courage in Journalism Awards e se la loro settima edizione premiò, l�anno scorso, quattro donne per la loro attività in Pakistan e Afghanistan, Russia (Cecenia) e Zimbabwe, con la motivazione che esse «continually risk their lives in an increasingly dangerous profession by fighting to report the truth about terrorism, political corruption and genocide» [9].

Una donna che fa del giornalismo in zona di guerra assume, evidentemente, identità differenti, se Stephen Brookes si chiede se sia opportuno che sia una donna a introdurre nelle nostre case (e nell'immaginazione dei bambini) immagini di crudeltà e violenza attraverso il video, che difficilmente - ma non impossibilmente, notiamo - i genitori riescono a mediare: «Our children should not be fed on a diet of war, war, war. This constant coverage presents a danger that they will become desensitised to it and form an acceptance» e prosegue argomentando che una donna che dà le notizie in televisione conferisce a queste un serio messaggio di semi-normalità ai bambini, come se fosse la mamma a raccontare� [10]

Tutte queste giornaliste sono però concordi su un punto, che unifica le sfaccettature di un mosaico così complesso: «È il nostro lavoro; la nostra professione».


Note - I link sono stati controllati il 15 marzo 2003

[1] Therese Bonney (fotografa, vinse un premio con un documentario sull'infanzia europea traumatizzata dalla guerra), Toni Frissell (dapprima fotografa di moda per rotocalchi come "Vogue" e "Harper's Bazar", così giustificò il proprio impegno di guerra: «I became so frustrated with fashions that I wanted to prove to myself that I could do a real reporting job»; in ogni caso, le sue immagini "fashioned" di giovani avieri neri americani giocarono un ruolo positivo nel convincere l'opinione pubblica che si trattava, dopotutto, di esseri umani ai quali si poteva affidare con tranquillità la difesa del Paese), Marvin Breckinridge Patterson (radiocronista freelance, fu la prima a usare una trasmittente portatile a onde corte per i suoi reportages; avendo sposato un funzionario americano in servizio a Berlino, le fu poi impedito di continuare l'attività per evitare "noie diplomatiche" al marito), Clare Boothe Luce (moglie "talented, wealthy, beautiful, and controversial" di Henry R. Luce, editore che fondò la triade "Time-Life-Fortune", fu anche ambasciatrice in Italia dopo la seconda guerra; avendo esperito bombardamenti a tappeto in Europa e in Estremo Oriente, ebbe a osservare: «Men have decided to die together because they are unable to find a way to live together»), Janet Flanner (giornalista e radiocronista, testimoniò l'occupazione di Parigi e il successivo processo di Norimberga), Esther Bubley (fotografa attiva sul fronte interno, documentò le trasformazioni della provincia americana dalla grande depressione all'economia di guerra), Dorothea Lange (obiettivo fotografico del suo fronte interno furono i campi di concentramento nei quali le autorità rinchiusero precauzionalmente i cittadini americani d'origine giapponese), May Craig (raccontò le V2 su Londra, la campagna di Normandia e la liberazione di Parigi e fu poi molto attiva come femminista in patria per promuovere e consolidare la parità delle giornaliste nei confronti dei colleghi maschi). ww.loc.gov/exhibits/wcf/wcf0001.html

[2]  In séguito, furono sempre più numerose le giornaliste americane che seguirono gli eventi bellici successivi. War torn: stories of the war by the women reporters who covered Vietnam (Random House, 2002) presenta nove storie di altrettante giornaliste, una delle quali fu ferita e un'altra catturata dai Vietcong www.wartorn.net. Altre giornaliste ebbero una fine tragica, e l'elenco è lungo; tra queste, Marguerite Higgins testimoniò sulla guerra di Corea e sulle operazioni nel Sudest asiatico finché vi morì per una malattia tropicale mentre Georgette "Dickey" Chapell (che lavorò nelle crisi di Algeria, Libano e Corea e fotografò la rivoluzione di Fidel Castro a Cuba) fu uccisa da una mina durante la guerra del Vietnam www.af.mil/news/Mar2001/n20010307_0322.shtml. Una menzione a parte merita la fotografa Gerda Pohorylles, che inventò per Endre Ernò Friedmann lo pseudonimo Robert (Bob) Capa, con il quale divenne famoso, e assunse per sé il cognome Taro; morì nel '37 durante la guerra di Spagna travolta da un carro armato impazzito. Anche Capa morì al fronte: saltò su una mina nel 1954, durante la guerra d'Indocina www.kodakgirl.com/emiscgerdataro.htm

[3] www.ilo.org/public/english/bureau/inf/pr/2003/10.htm

[4] Lauren Comiteau, War, rape and the press in Bosnia. "Columbia journalism review", gennaio-febbraio 1993 www.cjr.org/year/97/1/bosnia.asp

[5]  solair.eunet.yu/~640650/publications.html

[6]  www.homepages.Indiana.edu/011802/text/ricchiardi.html

[7]  "Media report to woman", v. 29, n. 4/2001 www.mediareporttowomen.com/294.htm

[8]  Heidi Dietrich, Women who cover war: why they do it. www.iwmf.org/features/6970

[9]  Le premiate: Cathy Gannon dell' "Associated Press", Anna Politkovskaya della "Novaya Gazeta", Sandra Nyaira del "Daily News" di Harare (Zimbabwe) e Mary McGrory del "Washington Post", vincitrice anche di un Pulitzer (www.iwmf.org, cliccare su "Press kit"). La "Plume d�or" è un altro riconoscimento, istituito nel 1961 dalla AMJ (Association Mondiale des Journals, che rappresenta 15.000 testate editoriali), per premiare la libertà di stampa: nel 2000 è stato assegnato a due giornalisti birmani in carcere, uno dei quali è donna; si tratta di San San Weh di 56 anni, condannata nel 1994 dal regime militare di Yangon a dieci anni per aver divulgato informazioni anti-governative www.peacelink.it/users/buone/bollettini/bn89.htm

[10]  www.coventryweb.co.uk/editorials/writers/Steve/WomenInNews.html



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