AIDA Informazioni |
ISSN 1121-0095, trimestrale
anno 16, numero 2, aprile-giugno 1998 |
Sommario:
Laurence Prusak [1] scrive che circa 50 anni fa gli Stati Uniti controllavano il 53% del prodotto nazionale lordo mondiale, e che oggi non ne controllano che il 17%. Ciò significherebbe soprattutto che c'è, globalmente, un numero crescente di concorrenti per un margine di profitto sempre minore e questo è, ci risulta, ancóra in pieno accordo con i dettami dell'economia politica classica. In conseguenza di ciò, però - e questa è la novità nel settore - i manager si sarebbero convinti sempre di più a considerare il KM come una delle loro più preziose (e "nuove") risorse strategiche.
Grossi investimenti in hardware e in software, si argomenta, infatti, possono conseguire, al massimo, trasferimenti ottimali d'informazione all'interno e all'esterno di qualunque azienda, ma ciò che farebbe la differenza (e dunque la diversa collocazione nella gerarchia della concorrenza) sarebbero le abilità proprie dei singoli appartenenti all'azienda, che sarebbe saggio cómpito dell'azienda stessa far diventare una risorsa globale di esclusiva proprietà dell'impresa.
Rebecca O. Barclay e Philip C. Murray [2] espongono, in KM Metazine, la drammaticità e l'urgenza dei cambiamenti che le aziende sono state chiamate recentemente a operare, nel momento in cui si sono accorte che, affascinate, e anche confuse, dalla proliferazione dell'hardware e del software disponibili su ogni scrivania, hanno gradatamente perduto di vista la vera funzione dell'innovazione tecnologica, che è sempre rimasta quella di migliorare il rendimento globale degli individui inseriti nell'organizzazione e, attraverso ciò, aumentare la competitività globale dell'impresa.
Il fatto è, ricordano i due Autori, che i calcolatori non sono più soltanto "strumenti" o "soluzioni" che applichiamo a specifiche esigenze d'impresa: i calcolatori (e, aggiungerei, la Rete [3]) sono diventati l'ambiente nel quale lavoriamo, tanto è vero che usiamo i calcolatori per produrre così tanta informazione che l'accesso all'informazione non è più un problema aziendale: il vero problema, semmai, è quello della qualità di questa informazione, e della rapidità con la quale possiamo reperirla quando ci serve. L'abitudine a vedere la conoscenza di un'organizzazione incorporata in documenti di vario genere ha fatto perdere di vista il fatto che la natura dei documenti è cambiata: non più documenti definitivi, ma palinsesti da modificare all'occorrenza; non più archivî statici ma basi di dati dinamiche; Intranet e l'ipertesto come strumenti-base di comunicazione. Interattività, insomma. Ne risultano alcune parole d'ordine sintetiche, che illustrano benissimo la dinamicità della situazione:
In questa situazione, continuano gli Autori, è la realtà aziendale globale che è mutata profondamente, anche se il problema è ancóra sottostimato. Ironicamente, sostengono, l'informazione, da sempre considerata un sottoprodotto delle attività aziendali, è diventata il vero fondamento dell'organizzazione. Anche l'organizzazione è cambiata: da una situazione statica permanente nel tempo, si è passati all'esigenza di una sua continua ri-definizione. Va da sé, concludono, che la prima cosa che un'organizzazione deve fare è mettere a fuoco che l'informazione è l'unica fonte persistente di valore. La conoscenza è l'organizzazione infrastrutturale, è la costante organizzativa.
Nella rassegna di definizioni che Brian D. (Bo) Newman [4] ha estratto da The Knowledge Management forum, emerge come il KM non sia facile da definire in termini di pura economia aziendale, pertinendo di più a capacità individuali, di derivazione, tutto sommato, artigianale, che non a capacità oggettive suscettibili d'essere totalmente indotte dai programmi educativi finanziati dall'impresa industriale.
Questa sistematizzazione e razionalizzazione della scoperta dell'acqua calda impegna, oggi, nel mondo, molti miliardi di dollari nel tentativo di governare, da parte dell'azienda e a proprio profitto, l'acquisizione, prima, delle conoscenze e il loro trasferimento, poi, ai diversi livelli di competenze e responsabilità gestionali su e giù e lateralmente lungo la scala gerarchica dell'impresa. Si è naturalmente súbito creato un business del KM, favorito dalla diffusione e dall'uso della Rete come risorsa e come mercato. Ditte come la Linkages [5] offrono i proprî servizî ai singoli manager e alle aziende per creare un ambiente di apprendimento diffuso che integri le competenze e la cultura delle organizzazioni aziendali con le nuove tecnologie, in modo da consentire che la conoscenza possa divenire ricchezza dell'impresa.
Nel passato, argomenta la Linkages, la conoscenza era scarsa e altamente protetta. L'informazione era filtrata dall'alto attraverso l'imbuto della struttura organizzativa ed era relativamente poca l'informazione che colava verso il basso. Molte aziende focalizzavano la loro attenzione sulla produzione materiale di prodotti tangibili. Adesso, invece, la conoscenza è il prodotto per la maggior parte delle aziende che destinano risorse crescenti più per l'acquisizione di menti che non di braccia. (È la recente "caccia al filosofo" - o al matematico - oggi praticata da molte aziente che nel passato assumevano soprattutto ingegneri per i livelli direttivi intermedî...). Così, sostiene ancóra la Linkages, la conoscenza viene sempre più vista come una ricchezza aziendale vera e propria, e cómpito delle organizzazioni diventa sempre di più il creare modi sistematici e razionali per identificare e convertire le esperienze, le specialità e le abilità individuali in risorse dell'organizzazione stessa. In questa strategia, un ruolo fondamentale spetta all'integrazione della tecnologia nella cultura organizzativa d'impresa, affinchè la conoscenza sia resa ampiamente accessibile e utilizzabile.
Problema fondamentale del KM è ovviamente, a questo punto, la natura stessa della conoscenza che, essendo una qualità implicita nella persona, non è immediatamente descrivibile con modalità oggettive e dunque non è automaticamente trasferibile. Inoltre, essa appartiene allo spazio locale, risiede in questa o in quella piega o sacca dell'organizzazione perché nasce e si sviluppa nei rapporti e nelle relazioni che i singoli intrattengono tra loro e con i clienti (e utenti) nel corso e in occasione del loro particolare lavoro. Cómpito dei nuovi manager è, allora, di rendere visibile e dunque apprezzabile e dunque disseminabile la conoscenza, e riuscire così a determinare oggettivamente, in ultima analisi, "che cosa fa" di un venditore "un bravo venditore". Ancóra Prusak sostiene che alla IBM è sempre meno raro vedere un impiegato che - a causa e in occasione del suo lavoro - legge un libro o un giornale durante le ore d'ufficio, senza per questo essere criticato perché "non sta lavorando"...
Karl E. Sveiby [6] ha tentato di contribuire a sistematizzare la situazione, tracciando una meta-definizione pragmatica del KM, secondo la quale, al livello del governo dell'informazione, ricercatori e addetti nel settore sono, soprattutto, esperti in informatica e/o scienze dell'informazione, e sono coinvolti nella costruzione di sistemi di gestione dell'informazione, intelligenza artificiale, re-ingegnerizzazione, risorse di gruppo, eccetera. Per costoro la conoscenza è un oggetto che può essere identificato e operato all'interno di sistemi informativi. Questo settore appare del tutto nuovo e in rapida crescita, anche sollecitato, in ciò, dagli sviluppi della tecnologia dell'informazione.
Al livello del governo del personale, invece, Sveiby sostiene che ricercatori e addetti nel settore sono, soprattutto, filosofi, psicologi, sociologi, o comuni manager o uomini d'affari, coinvolti soprattutto nell'assettare, cambiare e migliorare i comportamenti e le abilità umane individuali. Per costoro la conoscenza è un processo, cioè un insieme complesso di abilità, conoscenze, eccetera, in costante cambiamento. Se tradizionalmente addetti, come individui, nell'apprendimento e della gestione di queste competenze, si tratta preferibilmente di psicologi; se, invece, inseriti a un livello organizzativo, sono soprattutto filosofi, sociologi o teorici dell'organizzazione. Questo settore, secondo Sveiby, è molto "antico", e la velocità della sua crescita è piuttosto ridotta.
Tutto il discorso può essere esemplificato - e semplificato -
nella seguente tabella:
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Se la conoscenza è essenzialmente informazione che è stata compresa, interpretata e validata attraverso la pratica delle attività individuali e aziendali, è ovvio, sostiene Peter A. C. Smith [7], che non possa essere razionalmente sistematizzata (nella sua produzione così come nei suoi risultati) al di fuori di un convincente sistema di gestione sistemica della conoscenza (SKM), inteso come quell'insieme di processi, strumenti e infrastrutture mediante le quali un'organizzazione migliora, mantiene e sfrutta tutti quegli elementi caratteristici della sua base di conoscenza (e cioè la ricchezza finanziaria, tangibile e intangibile) che ritiene essere rilevanti per i proprî fini.
La pricipale (nel senso di rilevante per il KM) ricchezza intangibile dell'organizzazione è il capitale umano che, insieme con il capitale strutturale e quello relativo alla clientela, costitisce la struttura, o il sistema capitale dell'impresa. Il suo difetto altrettanto principale consiste nel fatto che esso, secondo la definizione di Johan e Goran Ross, Leif Edvinsson e Nicola C. Dragonetti [8], è, più che altro, una sorta di linguaggio che serve per pensare, parlare e fare "qualcosa" in relazione ai futuri guadagni dell'azienda. Insomma, nulla di direttamente conoscibile né, tanto meno, di razionalmente governabile.
Come giustamente, allora, (visto lo stato delle cose) puntualizza Debra M. Amidon [9], ad ogni costo "l'incommensurabile dev'essere misurato" perchè, secondo il principio che "what gets measured gets managed", ciò che non è misurabile è considerato senza valore, mentre i tradizionali meccanismi di contabilità finanziaria falliscono sistematicamente nel calcolare o calibrare proprio la (nuova) risorsa più importante di un'azienda, la sua capacità intellettuale. Invece di trattare i dipendenti come "passività" o come "spese", bisognerebbe calcolarli come parte della ricchezza aziendale (marche, marchî, brevetti, rapporti con la clientela e, naturalmente, conoscenza), e convertire le previsioni di bilancio nel senso di giustificare gli investimenti strategici necessarî nelle nuove forme di capitale umano e di capitale sociale (sostanzialmente, l'interattività) dell'azienda.
Un documento della nuova serie di Management Insights[10] (servizio di briefing della David Skyrme Associates), presenta una rassegna di diversi metodi (messi a punto da diverse aziende e società di servizî) di soluzione del problema. Ciò che interessa a noi, di tutto questo, è il metodo che si può estrapolare dall'analisi dei diversi tentativi (necessariamente approssimativi - chissà se qualcuno ha mai pensato di ricorrere ai fuzzy sets) di soluzione. La prima regola universale è, ovviamente, quella di costruirsi dei buoni, nuovi modelli mentali prima di sviluppare nuovi modelli gestionali. Il resto viene da sè:
Per cómpiti del genere non sono più utilizzabili i manager tradizionali, esposti ai rischi della burocratizzazione o, all'altro estremo, dell'impossibilità assoluta del controllo. È chiaro, nota Karl M. Wiig [11], che, storicamente, la conoscenza è stata sempre governata, seppur in modo, al più, implicito. Adesso, però, c'è bisogno di strumenti più razionali ed espliciti. C'è quindi necessità, prosegue, di una nuova disciplina gestionale e della preparazione accurata di quadri formati da professionisti della conoscenza che dispongano di un mélange di capacità finora mai viste. Dove trovarli?
Edmond H. Weiss [12], commentando un articolo di Thomas H. Davenport [13] sulla necessità di prevedere, nelle aziende, la figura professionale del Chief Knowledge Officer (CKO), lamenta che un tale individuo, correntemente, non esista: una specie di analista di sistemi educato nelle scienze umane, tanto potentemente perfetto potenziale professionista di KM che, probabilmente, quel lavoro non rivestirebbe nessun interesse per lui!
È da tempo (1989!), tuttavia, che le maggiori aziende sono alla caccia di un manager che assuma in sè le caratteristiche desiderate da Davenport. Per questa nuova razza è stato coniato il termine di "colletto d'oro" (gold collar) e di "hybrid manager" [14]. Un "ibrido", definisce la David Skyrme Associates [15], è una persona dotata di forti capacità tecniche e di adeguate conoscenze imprenditoriali o, viceversa, dotata di capacità tecniche tali da consentirle di lavorare in settori di line, ma capace di sviluppare e realizzare applicazioni di staff tipiche delle tecnologie dell'informazione.
Insomma, un documentalista...