Intervista con Antonella De Robbio, Responsabile del Settore Progetti e Biblioteca Digitale del Centro d'Ateneo per le Biblioteche CAB dell' Università di Padova e Referente per il diritto d'autore del Sistema Bibliotecario di Ateneo.
Prima di parlare di proprietà intellettuale nella
biblioteca digitale, va posto necessariamente l’accento sulla questione della
proprietà intellettuale nella comunicazione scientifica.
Prima ancora dobbiamo capire come viene regolata la
proprietà intellettuale. Per proprietà intellettuale si intendono i diritti,
morali ed economici, che gravano sulle opere. I detentori di tali diritti
possono essere figure diverse: gli autori prima di tutto, ma anche gli editori o
altre figure del mercato editoriale a cui gli autori cedono i diritti attraverso
contratti editoriali.
Premetto subito che
tutti i problemi correlati alla questione proprietà intellettuale, per l’ambito
della ricerca scientifica e anche per le biblioteche digitali, non sono stati
ancora risolti, ma potremmo direi che, a livello internazionale, si sta tentando
di affrontarli attraverso iniziative che rientrano nel canale noto come “Open
Access”.
Le leggi che regolano la proprietà intellettuale
nel mondo sono numerose e a grandi linee si differenziano in tre livelli:
trattati e convezioni internazionali, direttive (per i Paesi europei) e leggi
nazionali. Ogni Paese ha un suo corpo normativo che regola la proprietà
intellettuale: possiamo quindi parlare di sistemi normativi diversi (copyright
per i Paesi a matrice anglossassone, diritto d’autore per i Paesi europei, ecc…)
che trovano un minimo comune denominatore entro l’azione di armonizzazione
dell’OMPI (Organizzazione
Mondiale Proprietà Intellettuale). Per l’Italia, in mancanza di un Testo Unico,
la legge che regola il diritto d’autore è sempre la stessa, la Legge 633/1941, modificata
numerose volte a seguito di interventi legislativi interni, o per il recepimento
delle direttive europee o per l’adesione a quanto stabilito a livello
internazionale.
La legge italiana ha
recepito nell’aprile scorso la Sesta Direttiva Europea, la quale regola tre
diritti economici fondamentali per l’ambiente digitale: il diritto di
riproduzione, il diritto di distribuzione, il diritto di comunicazione al
pubblico. A fronte di diritti d’autore (di pubblicazione, stampa, distribuzione,
traduzione, riproduzione, comunicazione al pubblico…) la legge prevede delle
“eccezioni” a queste tutele. Alcune eccezioni riguardano appunto la ricerca, la
didattica, l’uso personale, le biblioteche e alcune utenze svantaggiate in
termini di disabilità.
Di fatto la critica
al decreto è principalmente quella di ostacolare il corretto flusso dei
contenuti della ricerca scientifica, ma anche quello di impedire uno sviluppo
dei servizi entro la biblioteca digitale a favore dei ricercatori, e più oltre,
dei cittadini. Il decreto si sforza di recepire le eccezioni di cui all'art. 5
della Direttiva, ma a causa di quanto disposto dalla Legge 248/2000, che si
vuole mantenere integra nella formulazione, molte sono le incongruenze, offrendo
un decreto non solo riduttivo, ma antiquato nel suo impianto concettuale,
rispetto alle evoluzioni che si stanno compiendo non solo negli ambienti di
ricerca, ma entro la società stessa.
Il
decreto non tiene conto delle trasformazioni sociali, temendo solo gli effetti
delle trasformazioni tecnologiche.
In
realtà oggi è necessario un ripensamento del sistema di diritto di autore, che
deve partire da una necessaria riscrittura della legge, che abbia come obiettivo
il giusto contemperamento degli interessi degli autori, che necessitano di
recuperare la loro centralità, dell'industria culturale, che deve essere
tutelata nei suoi investimenti economici, e della collettività, la quale deve
usufruire delle opere con regole certe e chiare.
Purtroppo però va detto che i meccanismi che
regolano la proprietà intellettuale sono prevalentemente costruiti attorno ad un
mercato delle idee che nulla ha a che fare con la ricerca e la didattica, nostre
due mission prioritarie. Piuttosto tali meccanismi sono orientati a soddisfare i
bisogni dei produttori informativi del mercato musicale e dello spettacolo e del
mercato dei “supporti informativi” in particolare. Forma e contenuto sono le due
grandi scommesse su cui nei prossimi decenni si giocheranno le sorti della
Società dell’Informazione verso scenari innovativi.
In sostanza, quando parliamo di proprietà intellettuale
dobbiamo differenziare tra due sfere in cui essa può collocarsi: da una parte
l’editoria di varia, dall’altra l’editoria scientifica.
Come dice Stevan Harnad,
professore di scienze cognitive a Southampton (UK) e ideatore del sistema EPrints per la creazione di Open Archives
istituzionali, occorre tracciare una netta separazione tra le due realtà. La
prima soggiace a regole di mercato precise ed è giusto quindi che, a fronte di
un pagamento all'autore di royalties da parte di un editore, i diritti vadano
rispettati. E qui ci mettiamo tutti i diritti economici patrimoniali, ceduti o
non ceduti, dell'editore o dell'autore e quant'altro... In questa sfera gli
editori, l'AIE, la SIAE e i rappresentanti tutti del mondo
dell'editoria hanno le loro buone ragioni per difendere i loro interessi.
Cosa assai diversa è il micro-mondo, ma macro in
termini di economia, dell'editoria scientifica. E qui siamo nella seconda sfera.
I due mondi vanno nettamente separati. Sta qui la confusione dei legislatori, ma
non solo, di cui noi ne paghiamo lo scotto in termini di budget. Molti editori
non vogliono comprendere o fa loro comodo non comprendere. O forse sono solo
estranei e quindi non essendo del giro accademico, non capiscono che i due
meccanismi sono diversi. Nessuno paga gli scienziati/ricercatori per i loro
lavori, o meglio pagano le università: sicuramente con gli stipendi ma anche
talvolta pagando gli editori stessi (certe riviste pretendono di essere pagate
per la pubblicazione degli articoli scientifici).
Fino a che questi nodi non verranno risolti, sarà difficile
modificare l’attuale meccanismo perverso che succhia risorse alla
ricerca.
Le università, attraverso le biblioteche sono
costrette ad acquistare riviste a costi sempre più elevati, i cui contenuti
intellettuali sono stati prodotti e ceduti gratuitamente (give-away da parte
degli autori) dalla comunità internazionale.
Con la Legge 248/2000, in modifica alla vecchia Legge
633/1941 siamo anche costretti a pagare, in virtù di un accordo sottoscritto tra
la CRUI e la SIAE, una quota forfetaria per il copyright sulle riproduzioni
cartacee nelle nostre biblioteche. Una rivista come Brain Research costa 16.344
dollari all'anno e per poterne fotocopiare un articolo (entro il 15% del
fascicolo) dobbiamo pagare il copyright per delle royalties che gli autori non
hanno mai percepito!
Le leggi sul
copyright o sul diritto d’autore, anche a livello internazionale, sono oggi
conformate al mondo della musica e dello spettacolo e ci stanno privando della
facoltà di poter disporre di alcuni diritti fondamentali, come il diritto di
ritenere il copyright, per esempio per poter depositare i nostri lavori entro
archivi di ateneo (Open Archives) o per costruire biblioteche digitali
disciplinari. La cessione dei diritti agli editori per i lavori scientifici e di
ricerca, la quale solitamente viene regolata da un contratto tra autore ed
editore, all’atto della sottomissione di un articolo, richiede una maggiore
consapevolezza da parte degli autori accademici. Dovrebbe essere evitata una
cessione in blocco di tutti i diritti economici a favore degli editori, i quali,
come è noto, si sono aggregati in multinazionali raggiungendo margini di
profitto per l’area medico-scientifico-tecnicologica anche del 48%. Certamente
se per gli editori questo modello economico si ripercuote in un mercato fiorente
attraverso il consolidamento di un mercato anelastico ormai sclerotizzato da
qualche decennio, da parte nostra (come atenei e centri di ricerca) stiamo
subendo una progressiva riduzione dei budget a causa di finanziamenti sempre più
ridotti a fronte di un aumento dei prezzi della letteratura scientifica in
crescita vertiginosa
2. Come il mezzo digitale ha interferito coi
canali tradizionali di produzione e diffusione della comunicazione
scientifica?
Il mezzo digitale ci offre la possibilità non solo
di “distribuire” le produzioni intellettuali della ricerca, ma di
“disseminarle”. Il concetto di distribuzione, legato ad un mercato di editoria
tradizionale a stampa, implica un prodotto che può essere distribuito a un
numero discreto - inteso in senso matematico - di utenti. La distribuzione
avviene comunque in differita rispetto ai tempi dell’effettiva produzione e
confezione di un’idea: talvolta passano anni dal momento della produzione
intellettuale di nuove idee o scoperte alla loro concreta pubblicazione a stampa
in un periodico. Il mezzo digitale non solo “diffonde” l’informazione
“comunicandola” a <n> utenti al di là dello spazio e del tempo, ma la
“dissemina” producendo una massimizzazione dell’impatto delle produzioni entro
le comunità. Si attua quel fenomeno noto come “intelligenza collettiva” ben
descritto da Pierre
Levy, filosofo di cultura virtuale contemporanea che insegna al Dipartimento
di Hypermedia all'Università di Paris VIII, a Saint Denis. Entro una cornice di
intelligenza collettiva gli studiosi si scambiano idee entro il cyberspazio in
un continuo colloquio di crescita collettiva continua.
Quando parliamo di medium digitale parliamo di fluidità.
Come ci ricorda Zygmunt
Bauman, il sociologo polacco di “Modernità liquida”, la fluidità è lo stato
dei liquidi e dei gas; un corpo fluido, a differenza di uno solido, può
mutare continuamente forma se soggetto a forze o pressioni La fluidità, secondo
Barman è la principale metafora dell’attuale fase dell’epoca moderna.
Le informazioni digitali viaggiano, come i
fluidi, ad estrema velocità e questo può essere un grande vantaggio per il
progresso scientifico e tecnologico, basta saper cogliere le giuste opportunità
che il mezzo digitale ci offre,
Prima ho
citato il canale dell’Open Access, ebbene possiamo affermare che l’Open Access
non è solo un movimento, un insieme di iniziative internazionali con al centro
gli scienziati e i bibliotecari coalizzati assieme, ma è una strategia. L’Open
Access combatte il paradosso della proprietà intellettuale nel circuito della
comunicazione scientifica che ostacola i processi di crescita e sviluppo della
scienza, tentando al contempo di arginare l’emorragia della spesa per la
letteratura scientifica.
Non solo, ma
accade che una rivista Open Access, cito a mente un esempio come JoP, Journal of the Pancreas, pubblichi
anche ricerche che hanno prodotto risultati negativi. Questo è un particolare
molto importante, quasi sempre ‘dimenticato’ nel mondo dell’editoria scientifica
e soprattutto nell’area medica, come ci ricorda uno dei fondatori di JoP,
Antonio Maria Morselli-Labate. E’ noto che gli autori, per ovvi motivi legati
alla accettabilità dei loro contributi, continuano a pubblicare solo lavori con
risultati positivi, accade così che si possano ripetere sperimentazioni che
portano a risultati negativi per il solo fatto che non è noto che l’esperienza
era già stata fatta. JoP è una rivista di pancreatologia, ha un’ampia copertura
internazionale sia per quanto riguarda gli autori che in relazione alla
nazionalità dei reviewers. quindi si colloca in un’area medica in cui gravitano
grossi interessi: economici, di lobby, etc. Ebbene il copyright che JoP applica
è innovativo per cui la proprietà intellettuale dei contributi pubblicati resta
agli autori.
3. Esperienze quali le University Press o gli
Open Archives possono essere, secondo, te, la strada per superare il paradosso
di un autore scientifico che è anche utente del suo editore?
I ricercatori, contrariamente a tutti gli altri
autori devono i loro guadagni non alla vendita dei loro articoli scientifici, ma
all'impatto dei loro articoli sulla comunità dei ricercatori, ossia al fatto di
essere letti, citati e utilizzati da altri ricercatori. Ne consegue che tutti
gli ostacoli all'accesso costituiti da barriere a pagamento sono ostacoli ad una
crescita culturale collettiva, ostacoli alla ricerca e ai ricercatori, che
sfociano in un impatto negativo in termini di benessere economico e sociale, per
il semplice motivo che vanno a ledere il processo "formativo" degli
individui.
Per tale ragione stanno
nascendo le University Press, le quali integrano un complesso di attività che
rientrano nel campo dell’editoria.
Non
dobbiamo confondere le Universiy Press con gli Open Archives, ma direi che i
canali andrebbero differenziati ancora più chiaramente. Da una parte abbiamo le
University Press con attività editoriali più o meno “aperte” e più o meno
innovative. Dall’altra abbiamo il canale dell’Open Access che si ramifica in due
direttrici: editoria elettronica accademica alternativa o “sostenibile”, e
costituzione di Open Archives, in prevalenza istituzionali presso gli
Atenei.
Di fatto, per combattere l’attuale
meccanismo, possiamo seguire più strategie che si incardinano in due distinti
ambiti: quello delle attività editoriali e quindi attività di e-publishing,
quello del deposito da parte degli autori entro gli Open Archives, attraverso il
processo di self-archiving.
Nell’e-publishing troviamo le University Press, le quali
per rientrare a pieno titolo nel canale dell’Open Access, devono necessariamente
adottare politiche “aperte” nella questioni dei diritti con gli autori. Le
iniziative di editoria sostenibile o “Open Access” sono quelle orientate alla
creazione di piattaforme di periodici elettronici di qualità con comitato di
referee, ad accesso gratuito, le cui spese sono sostenute dalle università
ed enti consorziati.
L’auto-archiviazione
o self-archiving è un processo essenziale nel nuovo modello di comunicazione
scientifica, è il primo passo entro circuito di disseminazione informativa
caratterizzato dal deposito delle proprie produzioni di ricerca entro spazi
“open access" istituzionali.
Al fine di
ottenere un consenso da parte degli studiosi è necessario però indagare sui
comportamenti delle diverse comunità. Vanno analizzate le motivazioni degli
studiosi a scrivere articoli e le loro abitudini nel comunicare le proprie
scoperte alla comunità dei parlanti.
I
comportamenti tra le varie comunità possono differire enormemente. Avere un
quadro preciso è strategico in quanto le abitudini e le trasformazioni sociali
sono più importanti di qualsiasi configurazione tecnologica.
A livello internazionale esistono degli studi sui
comportamenti e aspettative degli studiosi, per investigare la questione dei
diritti che ruotano attorno all'auto-archiviazione dei lavori di ricerca
depositati negli Open Archives. I tre studi sono stati condotti entro il
progetto europeo RoMEO (Rights MEtadata for Open archiving) finanziato dal JISC
(Joint Information Systems Committee),e i risultati sono stati resi noti il mese
scorso.
<http://www.lboro.ac.uk/departments/ls/disresearch/romeo/index.html>.
Vanno citate comunque alcune esperienze assai
interessanti sul fronte dell’OpenAccess.
Una di queste è BioMedCentral <www.biomedcentral.com>
che ha aderito all’iniziativa Public Library of Science <http://www.publiclibraryofscience.org/>
offrendo decine di riviste OpenAccess, supportando gli autori, i quali ritengono
per sé il copyright, e mettendo a disposizione i loro lavori in formato free
access. BioMedCentral adotta inoltre il protocollo OAI-PMH OAI Metadata
Harvesting Protocol, per la raccolta dei metadati dei lavori scientifici. Tutte
le riviste di BioMedCentral confluiscono in PubMedCentral, <http://www.pubmedcentral.nih.gov/>
l’archivio digitale editoriale di articoli di scienze della vita affiancato alla
banca dati PubMed.
Può tornare utile
ricordare che è disponibile un nuovo strumento repertoriale, curato dalle
biblioteche dell’Università di Lund, che enumera ad oggi 551 periodici
OpenAccess, DOAJ Directory of Open Access Journals <http://www.doaj.org/> tra cui molti anche di
ambito biomedico <http://www.doaj.org/links/term1210/>
4. Dal braccio di ferro tra “copyright” e
“copyleft” che scenario si prospetta?
Il meccanismo copyright versus copyleft non fa
parte del nostro sistema normativo a “diritto d’autore”, ma è proprio del regime
normativo di “copyright” (ambito anglossassone). Copyleft significa un diritto
andato, lasciato, ovvero non è necessario pagare nessun diritto per utilizzare
la copia di una creazione. L’idea del copyleft si consolida nel contesto dei
software.
Con i software però noi
costruiamo biblioteche digitali. E’ fondamentale perciò recepire i concetti di
copyleft per poter costruire biblioteche digitali con strumenti “open” senza
necessariamente dover dipendere da software proprietari. Questa è la filosofia
di base con cui si costruiscono oggi le grandi biblioteche digitali. L'idea del
copyleft consiste nel dare il permesso di modificare il programma, di
distribuirlo, e di pubblicarne una versione perfezionata.
Vi è quindi massima libertà di utilizzo di strumenti, ma va
sottolineato che il 'copyleft' è giuridicamente basato sul copyright, ed è per
questa ragione che possiamo farlo valere. Se qualcuno viola il 'copyleft'
distribuendo versioni senza il codice sorgente o cercando di annettervi altre
restrizioni, viola le leggi del copyright; di conseguenza è possibile fare causa
per violazione.
E’ un’idea brillante, se
non geniale, perfezionata nel mondo del “software libero” da Richard Stallman.
Ad oggi la comunità scientifica internazionale ha
sviluppato numerosi strumenti per costruire e gestire Open Archives e questi
sono tutti creati con software libero. Abbiamo anche strumenti “open” per creare
e gestire riviste scientifiche e fare così e-publishing alternativo
5. Quali di queste tendenze sono più capaci di
contribuire a quella metafora chiamata “Società della conoscenza”?
Si stimano circa 2 milioni di articoli annui in
20.000 riviste che ora sono tenuti “prigionieri” entro riviste scientifiche a
stampa.
Secondo me la trasformazione dei
contenuti della Società dell’Informazione verso la nuova frontiera della Società
della Conoscenza potrà attuarsi solo con un lavoro forte e integrato entro
l’attuale Società dell’Apprendimento che stiamo vivendo.
Per poter giungere ad una Società della Conoscenza dobbiamo
attraversare i canali dell’Open Access:
1.
Pubblicazioni entro iniziative di editoria elettronica sostenibile
2. Deposito negli Open Archives
L’attuale sistema è in forte conflitto con gli scopi di
ricercatori e scienziati i quali, è ovvio, pubblicano i propri lavori di ricerca
principalmente per ottenere una massimizzazione dell’impatto entro la comunità
internazionale. L’impatto consiste nella lettura dei paper scientifici, nella
loro citazione da parte di altri studiosi e nella costruzione di nuove ricerche
generate dal lavoro “comunicato”.
Due sono
le strade che facilitano il ribaltamento dell’attuale modello:
1. il supporto da parte delle istituzioni all’editoria
sostenibile per la pubblicazione di periodici open access
2. la creazione di depositi alimentati attraverso il
processo di auto-archiviazione per l’archiviazione e disseminazione dei lavori
di ricerca
Poiché le produzioni di ricerca
auto-archiviate massimizzano e accelerano l’impatto della ricerca massimizzando
perciò l’accesso alla ricerca stessa, molti sono i ricercatori che da alcuni
anni archiviano i loro lavori sui server delle loro istituzioni o in server
disciplinari. Un noto articolo
di Lawrence apparso su Nature rileva una media del 336% in più di
citazioni ad articoli online rispetto agli stessi articoli pubblicati a
stampa.
I depositi istituzionali possono
essere considerati estensione naturale delle responsabilità dell’istituzione
accademica in qualità di generatori di ricerca primaria e sono potenzialmente la
componente più importante nell’evoluzione della struttura dei nuovi modelli di
comunicazione scientifica. Le potenzialità di un deposito istituzionale possono
essere numerose:
Antonella De Robbio, I periodici Elettronici in Internet. Stato dell’arte e prospettive di sviluppo, in Biblioteche oggi, XVI, n. 7 (settembre 1998), p. 40-56. http://www.burioni.it/forum/adr-period.htm
Antonella De Robbio, La biblioteca
nel Web, il Web nella biblioteca
«Bibliotime», anno II, numero 2 (luglio
1999)
Antonella De Robbio, On the road of e-journals: Paesaggi in movimento nell'evoluzione dei periodici elettronici «Bibliotime», anno II, numero 3 (novembre 1999)
Antonella De Robbio, Evoluzione e
rivoluzione dei periodici elettronici
«Bibliotime», anno III, numero 1
(marzo 2000)
Antonella De Robbio, I periodici elettronici e la persistenza della memoria cartacea: un problema di definizioni «Bibliotime», anno III, numero 2 (luglio 2000)
Antonella De Robbio, Periodici
elettronici nel ciberspazio
«Bibliotime», anno IV, numero 3 (novembre
2001)
Antonella De Robbio, Diritto di accesso ai contenuti e diritti di proprietà
intellettuale nell'infrastruttura globale dell'informazione, relazione al
convegno Le risorse elettroniche, Roma 2001
http://w3.uniroma1.it/ssab/er/relazioni/derobbio_ita.pdf
Antonella De Robbio, Open Archives. Per una comunicazione scientifica free on
line
«Bibliotime», anno V, numero 2 (novembre 2002) http://www.spbo.unibo.it/bibliotime/num-v-2/derobbio.htm
Antonella De Robbio, Workshop on the open archives initiative (OAI) and peer review journals in Europe. «AIB Notizie», 13 (2001), n. 5, p. 14-15. http://www.aib.it/aib/editoria/n13/01-05derobbio.htm
Antonella De Robbio, Auto-archiviazione per la ricerca:problemi aperti e sviluppi futuri http://eprints.rclis.org/archive/00000180/03/OAI-20maggio2003.pdf
Antonella De Robbio (a cura di), e-print server per la biomedicina
http://www.math.unipd.it/~adr/database/e-printmed.htm
Antonella De Robbio (a cura di), Periodici elettronici Biomedici http://www.aib.it/aib/commiss/cnur/peb/peb.htm3
Antonella De Robbio, Diritto d’autore e norma italiana: torre di Babele o
soglia al terzo millennio? In GIDIF Notizie (Bollettino del Gruppo Italiano
Documentalisti dell'Industria Farmaceutica e degli Istituti di Ricerca Biomedica
) Anno X, 1, Maggio 2000 pag.5-9 http://www.gidif-rbm.it/pnoti001.pdf