Pinali news n. 4-5/2003. EDITORIA ELETTRONICA: PROGETTI E PROSPETTIVE

Intervista con Antonella De Robbio, Responsabile del Settore Progetti e Biblioteca Digitale del Centro d'Ateneo per le Biblioteche CAB dell' Università di Padova e Referente per il diritto d'autore del Sistema Bibliotecario di Ateneo.





1. Come vengono affrontati i problemi legati ai diritti intellettuali ed economici dell’autore nell’ambito dell'editoria elettronica e della "biblioteca digitale"?

Prima di parlare di proprietà intellettuale nella biblioteca digitale, va posto necessariamente l’accento sulla questione della proprietà intellettuale nella comunicazione scientifica.
Prima ancora dobbiamo capire come viene regolata la proprietà intellettuale. Per proprietà intellettuale si intendono i diritti, morali ed economici, che gravano sulle opere. I detentori di tali diritti possono essere figure diverse: gli autori prima di tutto, ma anche gli editori o altre figure del mercato editoriale a cui gli autori cedono i diritti attraverso contratti editoriali.
Premetto subito che tutti i problemi correlati alla questione proprietà intellettuale, per l’ambito della ricerca scientifica e anche per le biblioteche digitali, non sono stati ancora risolti, ma potremmo direi che, a livello internazionale, si sta tentando di affrontarli attraverso iniziative che rientrano nel canale noto come “Open Access”.

Le leggi che regolano la proprietà intellettuale nel mondo sono numerose e a grandi linee si differenziano in tre livelli: trattati e convezioni internazionali, direttive (per i Paesi europei) e leggi nazionali. Ogni Paese ha un suo corpo normativo che regola la proprietà intellettuale: possiamo quindi parlare di sistemi normativi diversi (copyright per i Paesi a matrice anglossassone, diritto d’autore per i Paesi europei, ecc…) che trovano un minimo comune denominatore entro l’azione di armonizzazione dell’OMPI (Organizzazione Mondiale Proprietà Intellettuale). Per l’Italia, in mancanza di un Testo Unico, la legge che regola il diritto d’autore è sempre la stessa, la Legge 633/1941, modificata numerose volte a seguito di interventi legislativi interni, o per il recepimento delle direttive europee o per l’adesione a quanto stabilito a livello internazionale.
La legge italiana ha recepito nell’aprile scorso la Sesta Direttiva Europea, la quale regola tre diritti economici fondamentali per l’ambiente digitale: il diritto di riproduzione, il diritto di distribuzione, il diritto di comunicazione al pubblico. A fronte di diritti d’autore (di pubblicazione, stampa, distribuzione, traduzione, riproduzione, comunicazione al pubblico…) la legge prevede delle “eccezioni” a queste tutele. Alcune eccezioni riguardano appunto la ricerca, la didattica, l’uso personale, le biblioteche e alcune utenze svantaggiate in termini di disabilità.
Di fatto la critica al decreto è principalmente quella di ostacolare il corretto flusso dei contenuti della ricerca scientifica, ma anche quello di impedire uno sviluppo dei servizi entro la biblioteca digitale a favore dei ricercatori, e più oltre, dei cittadini. Il decreto si sforza di recepire le eccezioni di cui all'art. 5 della Direttiva, ma a causa di quanto disposto dalla Legge 248/2000, che si vuole mantenere integra nella formulazione, molte sono le incongruenze, offrendo un decreto non solo riduttivo, ma antiquato nel suo impianto concettuale, rispetto alle evoluzioni che si stanno compiendo non solo negli ambienti di ricerca, ma entro la società stessa.
Il decreto non tiene conto delle trasformazioni sociali, temendo solo gli effetti delle trasformazioni tecnologiche.
In realtà oggi è necessario un ripensamento del sistema di diritto di autore, che deve partire da una necessaria riscrittura della legge, che abbia come obiettivo il giusto contemperamento degli interessi degli autori, che necessitano di recuperare la loro centralità, dell'industria culturale, che deve essere tutelata nei suoi investimenti economici, e della collettività, la quale deve usufruire delle opere con regole certe e chiare.

Purtroppo però va detto che i meccanismi che regolano la proprietà intellettuale sono prevalentemente costruiti attorno ad un mercato delle idee che nulla ha a che fare con la ricerca e la didattica, nostre due mission prioritarie. Piuttosto tali meccanismi sono orientati a soddisfare i bisogni dei produttori informativi del mercato musicale e dello spettacolo e del mercato dei “supporti informativi” in particolare. Forma e contenuto sono le due grandi scommesse su cui nei prossimi decenni si giocheranno le sorti della Società dell’Informazione verso scenari innovativi.
In sostanza, quando parliamo di proprietà intellettuale dobbiamo differenziare tra due sfere in cui essa può collocarsi: da una parte l’editoria di varia, dall’altra l’editoria scientifica.
Come dice Stevan Harnad, professore di scienze cognitive a Southampton (UK) e ideatore del sistema EPrints per la creazione di Open Archives istituzionali, occorre tracciare una netta separazione tra le due realtà. La prima soggiace a regole di mercato precise ed è giusto quindi che, a fronte di un pagamento all'autore di royalties da parte di un editore, i diritti vadano rispettati. E qui ci mettiamo tutti i diritti economici patrimoniali, ceduti o non ceduti, dell'editore o dell'autore e quant'altro... In questa sfera gli editori, l'AIE, la SIAE e i rappresentanti tutti del mondo dell'editoria hanno le loro buone ragioni per difendere i loro interessi.
Cosa assai diversa è il micro-mondo, ma macro in termini di economia, dell'editoria scientifica. E qui siamo nella seconda sfera. I due mondi vanno nettamente separati. Sta qui la confusione dei legislatori, ma non solo, di cui noi ne paghiamo lo scotto in termini di budget. Molti editori non vogliono comprendere o fa loro comodo non comprendere. O forse sono solo estranei e quindi non essendo del giro accademico, non capiscono che i due meccanismi sono diversi. Nessuno paga gli scienziati/ricercatori per i loro lavori, o meglio pagano le università: sicuramente con gli stipendi ma anche talvolta pagando gli editori stessi (certe riviste pretendono di essere pagate per la pubblicazione degli articoli scientifici).
Fino a che questi nodi non verranno risolti, sarà difficile modificare l’attuale meccanismo perverso che succhia risorse alla ricerca.

Le università, attraverso le biblioteche sono costrette ad acquistare riviste a costi sempre più elevati, i cui contenuti intellettuali sono stati prodotti e ceduti gratuitamente (give-away da parte degli autori) dalla comunità internazionale.
Con la Legge 248/2000, in modifica alla vecchia Legge 633/1941 siamo anche costretti a pagare, in virtù di un accordo sottoscritto tra la CRUI e la SIAE, una quota forfetaria per il copyright sulle riproduzioni cartacee nelle nostre biblioteche. Una rivista come Brain Research costa 16.344 dollari all'anno e per poterne fotocopiare un articolo (entro il 15% del fascicolo) dobbiamo pagare il copyright per delle royalties che gli autori non hanno mai percepito!
Le leggi sul copyright o sul diritto d’autore, anche a livello internazionale, sono oggi conformate al mondo della musica e dello spettacolo e ci stanno privando della facoltà di poter disporre di alcuni diritti fondamentali, come il diritto di ritenere il copyright, per esempio per poter depositare i nostri lavori entro archivi di ateneo (Open Archives) o per costruire biblioteche digitali disciplinari. La cessione dei diritti agli editori per i lavori scientifici e di ricerca, la quale solitamente viene regolata da un contratto tra autore ed editore, all’atto della sottomissione di un articolo, richiede una maggiore consapevolezza da parte degli autori accademici. Dovrebbe essere evitata una cessione in blocco di tutti i diritti economici a favore degli editori, i quali, come è noto, si sono aggregati in multinazionali raggiungendo margini di profitto per l’area medico-scientifico-tecnicologica anche del 48%. Certamente se per gli editori questo modello economico si ripercuote in un mercato fiorente attraverso il consolidamento di un mercato anelastico ormai sclerotizzato da qualche decennio, da parte nostra (come atenei e centri di ricerca) stiamo subendo una progressiva riduzione dei budget a causa di finanziamenti sempre più ridotti a fronte di un aumento dei prezzi della letteratura scientifica in crescita vertiginosa
 



2. Come il mezzo digitale ha interferito coi canali tradizionali di produzione e diffusione della comunicazione scientifica?

Il mezzo digitale ci offre la possibilità non solo di “distribuire” le produzioni intellettuali della ricerca, ma di “disseminarle”. Il concetto di distribuzione, legato ad un mercato di editoria tradizionale a stampa, implica un prodotto che può essere distribuito a un numero discreto - inteso in senso matematico - di utenti. La distribuzione avviene comunque in differita rispetto ai tempi dell’effettiva produzione e confezione di un’idea: talvolta passano anni dal momento della produzione intellettuale di nuove idee o scoperte alla loro concreta pubblicazione a stampa in un periodico. Il mezzo digitale non solo “diffonde” l’informazione  “comunicandola” a <n> utenti al di là dello spazio e del tempo, ma la “dissemina” producendo una massimizzazione dell’impatto delle produzioni entro le comunità. Si attua quel fenomeno noto come “intelligenza collettiva” ben descritto da Pierre Levy, filosofo di cultura virtuale contemporanea che insegna al Dipartimento di Hypermedia all'Università di Paris VIII, a Saint Denis. Entro una cornice di intelligenza collettiva gli studiosi si scambiano idee entro il cyberspazio in un continuo colloquio di crescita collettiva continua.
Quando parliamo di medium digitale parliamo di fluidità. Come ci ricorda Zygmunt Bauman, il sociologo polacco di “Modernità liquida”, la fluidità è lo stato dei liquidi e dei gas; un corpo fluido, a differenza di uno solido,  può mutare continuamente forma se soggetto a forze o pressioni La fluidità, secondo Barman è la principale metafora dell’attuale fase dell’epoca moderna.
Le informazioni digitali viaggiano, come i fluidi, ad estrema velocità e questo può essere un grande vantaggio per il progresso scientifico e tecnologico, basta saper cogliere le giuste opportunità che il mezzo digitale ci offre,
Prima ho citato il canale dell’Open Access, ebbene possiamo affermare che l’Open Access non è solo un movimento, un insieme di iniziative internazionali con al centro gli scienziati e i bibliotecari coalizzati assieme, ma è una strategia. L’Open Access combatte il paradosso della proprietà intellettuale nel circuito della comunicazione scientifica che ostacola i processi di crescita e sviluppo della scienza, tentando al contempo di arginare l’emorragia della spesa per la letteratura scientifica.
Non solo, ma accade che una rivista Open Access, cito a mente un esempio come JoP, Journal of the Pancreas,  pubblichi anche ricerche che hanno prodotto risultati negativi. Questo è un particolare molto importante, quasi sempre ‘dimenticato’ nel mondo dell’editoria scientifica e soprattutto nell’area medica, come ci ricorda uno dei fondatori di JoP, Antonio Maria Morselli-Labate. E’ noto che gli autori, per ovvi motivi legati alla accettabilità dei loro contributi, continuano a pubblicare solo lavori con risultati positivi, accade così che si possano ripetere sperimentazioni che portano a risultati negativi per il solo fatto che non è noto che l’esperienza era già stata fatta. JoP è una rivista di pancreatologia, ha un’ampia copertura internazionale sia per quanto riguarda gli autori che in relazione alla nazionalità dei reviewers. quindi si colloca in un’area medica in cui gravitano grossi interessi: economici, di lobby, etc. Ebbene il copyright che JoP applica è innovativo per cui la proprietà intellettuale dei contributi pubblicati resta agli autori.
 



3. Esperienze quali le University Press o gli Open Archives possono essere, secondo, te, la strada per superare il paradosso di un autore scientifico che è anche utente del suo editore?

I ricercatori, contrariamente a tutti gli altri autori devono i loro guadagni non alla vendita dei loro articoli scientifici, ma all'impatto dei loro articoli sulla comunità dei ricercatori, ossia al fatto di essere letti, citati e utilizzati da altri ricercatori. Ne consegue che tutti gli ostacoli all'accesso costituiti da barriere a pagamento sono ostacoli ad una crescita culturale collettiva, ostacoli alla ricerca e ai ricercatori, che sfociano in un impatto negativo in termini di benessere economico e sociale, per il semplice motivo che vanno a ledere il processo "formativo" degli individui.
Per tale ragione stanno nascendo le University Press, le quali integrano un complesso di attività che rientrano nel campo dell’editoria.
Non dobbiamo confondere le Universiy Press con gli Open Archives, ma direi che i canali andrebbero differenziati ancora più chiaramente. Da una parte abbiamo le University Press con attività editoriali più o meno “aperte” e più o meno innovative. Dall’altra abbiamo il canale dell’Open Access che si ramifica in due direttrici: editoria elettronica accademica alternativa o “sostenibile”, e costituzione di Open Archives, in prevalenza istituzionali presso gli Atenei.
Di fatto, per combattere l’attuale meccanismo, possiamo seguire più strategie che si incardinano in due distinti ambiti: quello delle attività editoriali e quindi attività di e-publishing, quello del deposito da parte degli autori entro gli Open Archives, attraverso il processo di self-archiving.
Nell’e-publishing troviamo le University Press, le quali per rientrare a pieno titolo nel canale dell’Open Access, devono necessariamente adottare politiche “aperte” nella questioni dei diritti con gli autori. Le iniziative di editoria sostenibile o “Open Access” sono quelle orientate alla creazione di piattaforme di periodici elettronici di qualità con comitato di referee,  ad accesso gratuito, le cui spese sono sostenute dalle università ed enti consorziati.
L’auto-archiviazione o self-archiving è un processo essenziale nel nuovo modello di comunicazione scientifica, è il primo passo entro circuito di disseminazione informativa caratterizzato dal deposito delle proprie produzioni di ricerca entro spazi “open access" istituzionali.
Al fine di ottenere un consenso da parte degli studiosi è necessario però indagare sui comportamenti delle diverse comunità. Vanno analizzate le motivazioni degli studiosi a scrivere articoli e le loro abitudini nel comunicare le proprie scoperte alla comunità dei parlanti.
I comportamenti tra le varie comunità possono differire enormemente. Avere un quadro preciso è strategico in quanto le abitudini e le trasformazioni sociali sono più importanti di qualsiasi configurazione tecnologica.
A livello internazionale esistono degli studi sui comportamenti e aspettative degli studiosi, per investigare la questione dei diritti che ruotano attorno all'auto-archiviazione dei lavori di ricerca depositati negli Open Archives. I tre studi sono stati condotti entro il progetto europeo RoMEO (Rights MEtadata for Open archiving) finanziato dal JISC (Joint Information Systems Committee),e i risultati sono stati resi noti il mese scorso.
<http://www.lboro.ac.uk/departments/ls/disresearch/romeo/index.html>.
Vanno citate comunque alcune esperienze assai interessanti sul fronte dell’OpenAccess.
Una di queste è BioMedCentral <www.biomedcentral.com> che ha aderito all’iniziativa Public Library of Science <http://www.publiclibraryofscience.org/> offrendo decine di riviste OpenAccess, supportando gli autori, i quali ritengono per sé il copyright, e mettendo a disposizione i loro lavori in formato free access. BioMedCentral adotta inoltre il protocollo OAI-PMH OAI Metadata Harvesting Protocol, per la raccolta dei metadati dei lavori scientifici. Tutte le riviste di BioMedCentral confluiscono in PubMedCentral, <http://www.pubmedcentral.nih.gov/> l’archivio digitale editoriale di articoli di scienze della vita affiancato alla banca dati PubMed.
Può tornare utile ricordare che è disponibile un nuovo strumento repertoriale, curato dalle biblioteche dell’Università di Lund, che enumera ad oggi 551 periodici OpenAccess, DOAJ Directory of Open Access Journals <http://www.doaj.org/> tra cui molti anche di ambito biomedico <http://www.doaj.org/links/term1210/>
 



4. Dal braccio di ferro tra “copyright” e “copyleft” che scenario si prospetta?

Il meccanismo copyright versus copyleft non fa parte del nostro sistema normativo a “diritto d’autore”, ma è proprio del regime normativo di “copyright” (ambito anglossassone). Copyleft significa un diritto andato, lasciato, ovvero non è necessario pagare nessun diritto per utilizzare la copia di una creazione. L’idea del copyleft si consolida nel contesto dei software.
Con i software però noi costruiamo biblioteche digitali. E’ fondamentale perciò recepire i concetti di copyleft per poter costruire biblioteche digitali con strumenti “open” senza necessariamente dover dipendere da software proprietari. Questa è la filosofia di base con cui si costruiscono oggi le grandi biblioteche digitali. L'idea del copyleft consiste nel dare il permesso di modificare il programma, di distribuirlo, e di pubblicarne una versione perfezionata.
Vi è quindi massima libertà di utilizzo di strumenti, ma va sottolineato che il 'copyleft' è giuridicamente basato sul copyright, ed è per questa ragione che possiamo farlo valere. Se qualcuno viola il 'copyleft' distribuendo versioni senza il codice sorgente o cercando di annettervi altre restrizioni, viola le leggi del copyright; di conseguenza è possibile fare causa per violazione.
E’ un’idea brillante, se non geniale, perfezionata nel mondo del “software libero” da Richard Stallman.
Ad oggi la comunità scientifica internazionale ha sviluppato numerosi strumenti per costruire e gestire Open Archives e questi sono tutti creati con software libero. Abbiamo anche strumenti “open” per creare e gestire riviste scientifiche e fare così e-publishing alternativo
 



5. Quali di queste tendenze sono più capaci di contribuire a quella metafora chiamata “Società della conoscenza”?

Si stimano circa 2 milioni di articoli annui in 20.000 riviste che ora sono tenuti “prigionieri” entro riviste scientifiche a stampa.
Secondo me la trasformazione dei contenuti della Società dell’Informazione verso la nuova frontiera della Società della Conoscenza potrà attuarsi solo con un lavoro forte e integrato entro l’attuale Società dell’Apprendimento che stiamo vivendo.
Per poter giungere ad una Società della Conoscenza dobbiamo attraversare i canali dell’Open Access:
1. Pubblicazioni entro iniziative di editoria elettronica sostenibile
2. Deposito negli Open Archives
L’attuale sistema è in forte conflitto con gli scopi di ricercatori e scienziati i quali, è ovvio, pubblicano i propri lavori di ricerca principalmente per ottenere una massimizzazione dell’impatto entro la comunità internazionale. L’impatto consiste nella lettura dei paper scientifici, nella loro citazione da parte di altri studiosi e nella costruzione di nuove ricerche generate dal lavoro “comunicato”.
Due sono le strade che facilitano il ribaltamento dell’attuale modello:
1. il supporto da parte delle istituzioni all’editoria sostenibile per la pubblicazione di periodici open access
2. la creazione di depositi alimentati attraverso il processo di auto-archiviazione per l’archiviazione e disseminazione dei lavori di ricerca
Poiché le produzioni di ricerca auto-archiviate massimizzano e accelerano l’impatto della ricerca massimizzando perciò l’accesso alla ricerca stessa, molti sono i ricercatori che da alcuni anni archiviano i loro lavori sui server delle loro istituzioni o in server disciplinari. Un noto articolo di Lawrence  apparso su Nature rileva una media del 336% in più di citazioni ad articoli online rispetto agli stessi articoli pubblicati a stampa.
I depositi istituzionali possono essere considerati estensione naturale delle responsabilità dell’istituzione accademica in qualità di generatori di ricerca primaria e sono potenzialmente la componente più importante nell’evoluzione della struttura dei nuovi modelli di comunicazione scientifica. Le potenzialità di un deposito istituzionale possono essere numerose:

Paradossalmente, in una Società della Conoscenza che sta varcando nuovi confini, l’universo della scienza - ci dice il filosofo francese Pierre Bourdieu nel suo prezioso testo “Il mestiere di scienziato” [vedi sezione bibliografia generale Ndr] – è oggi minacciato da una terribile regressione a causa di un’autonomia che si sta indebolendo a seguito di meccanismi sociali, come la logica delle concorrenze di mercato, che rischia di mettere la scienza al servizio di fini imposti dall’esterno. Bourdieu parla di “deliri postmoderni” in cui le pressioni dell’economia di fanno ogni giorno più forti soprattutto in certi settori dove le produzioni intellettuali sono altamente redditizie. E anche qui parliamo sempre di proprietà intellettuale la quale è divisa in due grandi aree di intervento, o meglio in due diritti assoluti, l’uno che ricade entro il diritto d’autore o proprietà intellettuale artistica e letteraria (dvoe si trovano le pubblicazioni scientifiche), l’altro comprende i marchi e brevetti e ricade entro la proprietà intellettuale industriale. Il pericolo, sottolinea Bourdieu sta nella linea di frontiera tra la ricerca di base e la ricerca applicata, dai confini sempre più sfumati, nel momento in cui vi è il rischio “che gruppi di ricerca cadano sotto il controllo di grandi società industriali, attente ad acquisire, attraverso i brevetti, il monopolio di prodotti ad alto rendimento commerciale”
E' ormai indiscusso che per esserci impatto è necessaria un’ampia disseminazione, in altri termini i lavori dei ricercatori devono essere letti, citati e utilizzati da altri ricercatori, solo così raggiungono l’impatto utile ad uno sviluppo collettivo, quell'impatto che consente di creare nuove ricerche, di effettuare nuove scoperte sulla base di un lavoro altrui letto, assimilato, metabolizzato.
 



Bibliografia

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Antonella De Robbio, La biblioteca nel Web, il Web nella biblioteca
«Bibliotime», anno II, numero 2 (luglio 1999)

Antonella De Robbio,  On the road of e-journals: Paesaggi in movimento nell'evoluzione dei periodici elettronici «Bibliotime», anno II, numero 3 (novembre 1999)

Antonella De Robbio,  Evoluzione e rivoluzione dei periodici elettronici
«Bibliotime», anno III, numero 1 (marzo 2000)

Antonella De Robbio,  I periodici elettronici e la persistenza della memoria cartacea: un problema di definizioni «Bibliotime», anno III, numero 2 (luglio 2000)

Antonella De Robbio,  Periodici elettronici nel ciberspazio
«Bibliotime», anno IV, numero 3 (novembre 2001)

Antonella De Robbio, Diritto di accesso ai contenuti e diritti di proprietà intellettuale nell'infrastruttura globale dell'informazione, relazione al convegno Le risorse elettroniche, Roma 2001
http://w3.uniroma1.it/ssab/er/relazioni/derobbio_ita.pdf

Antonella De Robbio, Open Archives. Per una comunicazione scientifica free on line
«Bibliotime», anno V, numero 2 (novembre 2002) http://www.spbo.unibo.it/bibliotime/num-v-2/derobbio.htm

Antonella De Robbio, Workshop on the open archives initiative (OAI) and peer review journals in Europe. «AIB Notizie», 13 (2001), n. 5, p. 14-15. http://www.aib.it/aib/editoria/n13/01-05derobbio.htm

Antonella De Robbio,  Auto-archiviazione per la ricerca:problemi aperti e sviluppi futuri http://eprints.rclis.org/archive/00000180/03/OAI-20maggio2003.pdf

Antonella De Robbio (a cura di),  e-print server per la biomedicina
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Antonella De Robbio (a cura di), Periodici elettronici Biomedici http://www.aib.it/aib/commiss/cnur/peb/peb.htm3

Antonella De Robbio, Diritto d’autore e norma italiana: torre di Babele o soglia al terzo millennio? In GIDIF Notizie (Bollettino del Gruppo Italiano Documentalisti dell'Industria Farmaceutica e degli Istituti di Ricerca Biomedica ) Anno X, 1, Maggio 2000 pag.5-9 http://www.gidif-rbm.it/pnoti001.pdf