(tra “golden road” e “green road”, lo
scenario permane…. grigio)
Eugenio Pelizzari
(pelizzar@eco.unibs.it)
Pur essendo al centro di un esteso ed
intenso dibattito, la strategia così detta dell’”Open Access” è ancora
caratterizzata da alcune ambiguità.
La prima distinzione cruciale che va
posta è quella tra una nozione tecnica e neutrale di Open
(traducibile con "interoperabile" e garantita da protocolli e
standard) e una nozione sostanziale dell’espressione, intesa invece
come libertà senza barriere (in particolare economiche) di accedere alla
letteratura scientifica. E' chiaro che senza la prima non si dà neppure la
seconda, ma ciò a cui il mondo scientifico-accademico è (o dovrebbe essere)
interessato è la possibilità di accedere concretamente e liberamente ai
documenti scientifici e non soltanto in linea di principio! E’ quindi di questa
seconda concezione che parliamo quando usiamo le espressioni “Open Access”
o “Open Archives”.
Questa
distinzione non va persa, ma va anzi tenuta ben presente: garantire
l’accessibilità dei materiali tramite protocolli e standard (in particolare OAI-PMH, Open Archives Initiative - Protocol for Metadata
Harvesting) non significa di per sé garantire il libero
accesso alla produzione scientifica, essendo gli stessi standard e protocolli
utilizzabili (e già utilizzati da importanti editori commerciali) per garantire
l’accesso alle loro risorse… ma dietro pagamento. Interoperabilità fra archivi
non significa – in sintesi - accesso gratuito ai loro contenuti.
Un’altra ambiguità – forse più grave -
permane riguardo alle “strategie” grazie alle quali questo libero accesso alla
produzione scientifica (la seconda – ed unica possibile - concezione di Open
Access, dunque) andrebbe garantito.
Viene infatti sovente fatta una
assimilazione - fuorviante - tra
riviste “Open access” (la cosiddetta “golden road”) e archivi basati sul
self-archiving (la cosiddetta “green road”). Siamo in realtà di
fronte a due strategie assolutamente complementari, ma aventi presupposti,
finalità e modalità differenti.
Per fare chiarezza dobbiamo
necessariamente tornare a quanto enunciato dalla Budapest Open Access
Initiative, in una formulazione che varrà la pena riportare letteralmente:
“To achieve
open access to scholarly journal literature, we recommend two complementary
strategies.
I. Self-Archiving: First,
scholars need the tools and assistance to deposit
their refereed journal articles in open electronic archives, a practice
commonly called, self-archiving. When these archives conform to
standards created by the Open Archives Initiative, then search engines and other
tools can treat the separate archives as one. Users then need not know which
archives exist or where they are located in order to find and make use of their
contents.
II. Open-access Journals: Second,
scholars need the means to launch a new generation of journals committed to
open access, and to help existing journals that elect to make the transition to
open access. Because journal articles should be disseminated as widely as
possible, these new journals will no longer invoke copyright to restrict access
to and use of the material they publish. Instead they will use copyright and
other tools to ensure permanent open access to all the articles they publish.
Because price is a barrier to access, these new journals will not charge
subscription or access fees, and will turn to other methods for covering their
expenses (...)
Ancor
più esplicitamente continua:
”Open access to peer-reviewed journal literature is the goal. Self-archiving
(I.) and a new generation of open-access journals (II.) are the ways
to attain this goal”.
Self-archiving e Open
Access Journal sono dunque le due strategie per garantire il libero accesso
alla produzione scientifica, le due strade dell’Open Access che, come
dicevamo, hanno caratteristiche diverse:
Gli archivi Open
Access, implementati tramite l’autoarchiviazione da parte degli autori della
produzione scientifica, nascono per mettere a disposizione di tutti, gratuitamente e per
sempre, i loro contenuti, passati da un processo di certificazione di qualità (post-print)
o ancora da valutare (pre-print); in quest’ottica non è loro compito
gestire in proprio la certificazione di qualità, demandata ad altri;
I periodici Open
Access hanno un proprio Comitato editoriale, propri referee e
gestiscono normalmente, secondo procedure proprie, il processo di
certificazione di qualità; successivamente mettono a disposizione di tutti,
gratuitamente e per sempre i contenuti passati a questo controllo. Esistono già
realtà consolidate di questo tipo, così come esistono editori Open Access;
DOAJ , a sua volta, fornisce l’elenco di
tutti i periodici Open-access esistenti.
Chiarito quanto sopra, è stato con un
certa sorpresa – ma in verità senza troppo clamore - che parte del mondo
bibliotecario ha accolto il pur atteso “IFLA Statement on Open
Access to Scholarly Literature and Research Documentation”, la cui ultima
versione, disponibile in rete, è datata 26 febbraio 2004.
La sorpresa è dovuta essenzialmente al
fatto che lo Statement dell’IFLA si occupa esclusivamente dei periodici Open
Access, trascurando del tutto gli Open Archives, costruiti tramite
il Self-archiving.
Al
riguardo Stevan Harnad, strenuo propugnatore del Self-archiving, muove
alcune – a mio modo di vedere - sensate obiezioni:
In sintesi: L’IFLA Statement,
riecheggiando il Bethesda Statement on Open Access Publishing, non vede la
creazione di archivi Open Access come un mezzo indipendente per
garantire il libero accesso alla produzione scientifica, ma solo come un mezzo
per depositare ed accedere ad articoli pubblicati in periodici Open Access.
Francamente risulta difficile intendere
questa posizione, che trascura completamente iniziative che pur stanno
prendendo piede in tutto il mondo.
Uno dei motivi può essere la relativa
lentezza con cui gli stessi archivi Open Access sono implementati.
I due principali software Open
Source utilizzati per la creazione di archivi sono E-prints.org e D-Space
(di cui è stata recentemente rilasciata la versione beta 1.2). Il primo,
apparso in anticipo rispetto al secondo, è al momento il più utilizzato
contando 124 archivi; D-Space sembra offrire molte più funzionalità ma è utilizzato,
per ora, da soli 11 archivi; la prima realizzazione italiana in corso è quella
dell’Università di Parma.
Considerando tutti gli archivi di e-print (146 in totale quelli registrati da e-prints.org) sono comunque
ancora pochi gli articoli in essi depositati, non raggiungendo i 50.000, contro
una produzione annua di oltre 2.500.000 articoli, pubblicati su 2.400 riviste.
Poco indagati sono i motivi per i quali
una prospettiva così allettante come quella di poter accedere liberamente
all’intera produzione scientifica mondiale (e si pensi all’enorme beneficio per
i Paesi poveri) sia così poco recepita dalle istituzioni (in Italia si contano meno
di una quindicina di archivi di e-print, e solo due sono registrati presso e-prints.org)
e da quelli che ne dovrebbero essere i principali artefici oltre che
beneficiari, ossia gli autori accademici.
Le poche ricerche svolte in tal senso
sembrano indicare nell’inerzia dei docenti e ricercatori, ossia nella loro
resistenza ad abbandonare il sistema di pubblicazione tradizionale, uno dei
fattori principali della scarsa adesione.
Un
altro motivo sembra legato alla scarsa consapevolezza degli autori del ruolo
politico-strategico delle iniziative open access. L’attenzione delle
istituzioni, a sua volta, sembra più rivolta agli aspetti di “prestigio” o
prettamente “funzionali” rappresentati dalla creazione di archivi istituzionali
che al ruolo strategico che essi possono svolgere sulla diffusione e l’impatto
della comunicazione scientifica.
Riguardo ai giornali Open access,
ancora pochi, seppur in continua crescita, gli editori che hanno sposato o la “green”
o la “golden road”, come illustrato dal Romeo Project.
Cruciale resta la questione della
certificazione di qualità, uno dei principali dubbi avanzati dagli autori
allorché interrogati sulla loro disponibilità a partecipare attivamente ad un
progetto di archivio istituzionale. La rilevanza del tema, e le sue profonde
implicazioni nell’era post-Gutemberg sono bene illustrate dagli interventi
succedutisi durante un apposito workshop
tenutosi a Trieste nel maggio scorso e incisivamente documentati da Valentina
Comba, sul n. 21 (3), 2003, della rivista AIDA; il resoconto è disponibile
nell’archivio
e-print dell’Università di Bologna.
Un significativo contributo potrà
venire forse dai progetti in corso per rendere ricercabili i contenuti degli
archivi istituzionali da parte dei più usati motori di ricerca, (si veda al
proposito l’articolo di Jeffrey R. Young su The
Chronicle of Higher Education Daily Update), o con altri strumenti, come OAIster.
Da segnalare, in questo contesto, il
progetto “mod-oai” (gestito dalla Dominion
University e Research Library of the Los Alamos National Laboratory, e
finanziato dalla Andrew
W. Mellon Foundation), il cui scopo è
di creare un modulo software Apache per l’esposizione dei contenuti accessibili
da Web server via l’OAI-PMH.
Chi scrive concorda, tuttavia, nel
vedere come centrale la questione posta da Tim Brody il 13 aprile scorso sull’American
Scientist Open Access Forum, che di seguito riportiamo:
“Institutional research archives (and hence the
services built on them)
will succeed or fail depending on whether there is the
drive within the
institution to enhance its visibility and impact by
mandating that its
author-employees deposit all their refereed-research
output. Then,
once it achieves critical mass, the archive can
support itself as part
of the culture of the institution.”
Senza un preciso intervento di
indirizzo delle istituzioni che hanno dato vita ed ospitano archivi
istituzionali ad accesso libero, affinché gli autori depositino in essi la loro
produzione scientifica certificata (ed in questo contesto andrebbero trattate
anche le problematiche relative a cessione/mantenimento del copyright), vi sono
poche possibilità che le iniziative di Self-archiving guadagnino un
ruolo di rilievo all’interno del processo di diffusione della comunicazione
scientifica. Un’esemplare (ed
essenziale) “Self-archiving policy” è
quella adottata, a partire dal Gennaio 2004, alla Queensland University of
Technology.
Alle biblioteche (o meglio: a chi vi opera, e cioè a noi)
resterà un ruolo centrale da svolgere nella diffusione delle iniziative Open
Access, con riferimento alla doppia strategia citata più sopra. Da un lato
dovranno svolgere un lavoro di capillare informazione e sostegno agli autori per
portarli a conoscenza e convincerli a pubblicare su riviste Open Access;
dall’altro potranno farsi carico della creazione di archivi di e-prints (o
stimolare le proprie istituzioni in tal senso), un’altra volta supportando
incisivamente tutti gli attori coinvolti nel processo.
Di notevole utilità potranno
dimostrarsi alcuni strumenti, messi a disposizione da Eprints.org, e con
l’indicazione dei quali concludiamo queste riflessioni.
http://software.eprints.org/handbook
http://www.eprints.org/self-faq
http://opcit.eprints.org/feb19oa/brody-impact.pdf
http://www.eprints.org/signup/sign.php