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AIDA Informazioni
ISSN 1121-0095, trimestrale
anno 20, numero 2-3, aprile-settembre 2002

Manifestazioni-dopo
Ascoltare da vicino il mondo che cambia: imprese, istituzioni e settore non profit di fronte all'opportunità offerta dall'immigrazione qualificata.
Gruppo CERFE, Firenze, 30-31 maggio 2002

Domenico Bogliolo <domenico.bogliolo@uniroma1.it>
Università di Roma "La Sapienza"
Lingua, razza (non in senso oggettivo, finalmente e grazie a dio, ma in quello soggettivo della percezione che ne ha eventualmente l'interessato), etnia, genere, età, orientamento sessuale, religione, posizione gerarchica, status socio-economico, educazione ricevuta, valori stabili, status familiare, abilità fisica e mentale sono le componenti, in ordine vagamente decrescente d'importanza, della nozione di "diversità", che possiamo banalizzare come: «tutti i modi nei quali si differenziano gli individui» e, da un punto di vista euristico, come: «la cattura delle differenze in caratteristiche osservabili e non direttamente osservabili». Il problema rientra negli àmbiti delle scienze dell'informazione e, a un livello superiore, in quelli delle scienze della comunicazione, ma non solo: nell'età della globalizzazione, la gestione della diversità gioca infatti anche un ruolo non indifferente nella bottom line (l'ultima riga, nella quale si calcola il pareggio finale) dei bilanci, soprattutto per le dinamiche di gruppo che può innescare.

In sintesi, la sociologia della diversità individua, fondamentalmente, tre teorie: categorizzazione (che crea contrapposizioni tra gruppi "interni" od omogenei, e gruppi "esterni" o eterogenei e che induce alla formazione di strereotipi e pregiudizi), similarità-attrazione (che stimola l'interazione con coloro che condividono esperienze e valori simili, incrementa la comunicazione, l'integrazione sociale e il senso di affiliazione) e informazionale (che incrementa la domanda di conoscenza, stimola l'auto­analisi del gruppo e un miglior uso dell'informazione). Un buon direttore del personale deve ovviamente tendere a dare un peso almeno -1 alla categorizzazione, 0 alla similarità­attrazione e 1 alla teoria informazionale. Oltre a ciò, la longevità del gruppo, la complessità dei cómpiti, l'inter­dipendenza dei gruppi e la cultura d'impresa costituiscono, tutti, fattori di moderazione nelle relazioni fra la diversità e le prestazioni (performance).

Non si tratta qui, certamente, di un interesse diretto dell'organizzazione alla felicità dei suoi dipendenti, ma la coscienza che una carente o assente buona gestione della diversità può generare conflitti improduttivi, quando non marcatamente negativi, nelle prestazioni dei gruppi (dall'assenteismo all'eccesso di turnover alla scarsa produttività), il che non è, questo sì, affatto indifferente per il controllo dei costi interni. Nel caso contrario, una corretta gestione della diversità genera capacità superiori di creatività e d'innovazione e, quindi, sviluppo di nuovi prodotti e servizi che portano a benèfici vantaggi competitivi e, in definitiva, a un buon sviluppo generale dell'organizzazione. Non basta: è dimostrata la crescita dei costi interni proprio a causa di situazioni troppo omogenee tra i dipendenti, che impongono sforzi eccessivi quando l'organizzazione, spinta da pressioni societarie, legali o di mercato, decide di operare cambiamenti anche poco profondi.

È già piuttosto ricco l'elenco delle organizzazioni che, per rafforzare la cultura d'impresa, ottimizzare le prassi organizzative, le rotazioni interne, gli standard di qualità globale e i modelli di selezione della leadership, hanno istituito un ufficio per la gestione della diversità. In Italia, tra gli altri: ISTUD, Benetton, Hewlett Packard, Nokia, Sony, per non dire della Western Union Italia (Angelo Costa spa) nella quale il 35% dei dipendenti (anche direttori di sede) è qualificabile come ciò che viene comunemente definito "extracomunitario" (ed è ovvio che l'espressione non valga per Svedesi, Svizzeri, Americani…). Nel mondo primeggia l'Australia che, con gli Aborigeni in prima fila (cultura assolutamente alternativa e dunque quasi non integrabile), possiede forse il tasso più ampio e variegato di diversità e quindi d'impegno per una sua gestione produttiva [1].

Oltre a queste opportunità gestionali, ci sono due altri buoni motivi, uno storico o sociologico e uno di etica sociale, per dare più spazio alla diversità nelle organizzazioni. L'UNESCO, approvando la "Dichiarazione sulla diversità culturale" [2], ha recentemente posto l'obiettivo del superamento della diversità (che non mette in discussione il rapporto di forze contrapposte fra maggioranza e minoranza culturali) per il conseguimento di un pluralismo culturale che consenta «un'interazione armoniosa e un voler vivere insieme di persone e gruppi con identità culturali molteplici, variate e dinamiche» e vòlto all'affermazione del diritto fondamentale del mantenimento della propria identità [3]. In Italia, tra le altre iniziative consolidate di pluralismo culturale: progetto LeO del Friuli-Venezia Giulia, Tavolo unico della Toscana, progetto Epikouros del COSPE, Servizio informativo per l'utenza straniera del Comune di Roma, Centro per servizi agli immigrati del Comune di Perugia, Ufficio immigrati del Comune di Firenze, progetto Intercultura dell'IRRSAE Toscana.

Sul piano etico, poi, la cosiddetta corporate citizenship percepisce le organizzazioni come entità anche sociali, dotate di un'etica che le spinge ad assumersi responsabilità dirette nei confronti delle collettività, soprattutto a sostegno dei soggetti più deboli e più esposti al rischio dell'esclusione sociale [4].

Queste le premesse di ciò che si è discusso a Firenze in un convegno organizzato dal Laboratorio di scienze della cittadinanza del CERFE [5], promotori anche la Regione Toscana, il Fondo sociale europeo e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, per tentare di passare dalla teoria alla prassi della ricerca­intervento, o ricerca­azione, con un ulteriore duplice obiettivo: verificare sul campo l'integrabilità nelle nostre organizzazioni di elementi direzionali altamente professionalizzati appartenenti a culture "diverse" (nel caso, prevalentemente dell'Africa sub­sahariana) e, insieme, istituire una serie sperimentata di apparati formativi [6] e informativi [7] per facilitare, sia dal lato della domanda sia da quello dell'offerta, questi stessi processi d'integrazione.

Oltre a una sessione inaugurale, il convegno si è articolato in tre sedute di lavoro: "Esigenze di una nuova conoscenza organizzativa. Informazione, interpretazione e visione della realtà: il contributo degli immigrati qualificati", "Quali spazi per gli immigrati qualificati in Italia? Le risposte della corporate citizenship, del pluralismo culturale e della gestione della diversità" e "L'integrazione professionale di alto profilo degli immigrati. Per una sintesi fra nuova conoscenza organizzativa e responsabilità sociale: il progetto pilota della Regione Toscana", per un totale di 40 interventi, ma il sito <www.gruppocerfe.org/convegni/2002/rait/rait_main.htm> ne contiene per ora (16 luglio) solo la quarta parte, che può tuttavia, oltre a una utile traccia di proposte per la discussione, dare una visione soddisfacente dell'avvenimento.

Al di là del tema specifico, che esige (se non altro, per la forza cogente del segno "più" accanto ai risultati numerici dei bilanci) prese di coscienza culturali insieme con l'adozione di idonee strategie organizzative, l'esito che ci è parso interessare direttamente le discipline e le prassi connesse con l'informazione e la documentazione è quello della centralità del concetto di "risorsa" quando esso è attribuito alle fonti umane dell'informazione; cioè, in ultima analisi, alla stessa conoscenza, che va ad acquisire connotazioni più prettamente antropologiche. Non si tratta, infatti, solo della raccolta e dello sfruttamento ottimale di singoli "saperi" tecnici attraverso la loro condivisione entro un'organizzazione, né del loro interlivellamento in reale patrimonio collettivo della stessa organizzazione fino a diventare una nuova forma di personalità, specifica e differenziante per ciascuna impresa. Si tratta di mantenere l'unitarietà, etica ed estetica insieme, dell'individuo e della persona, essa sola, sì, vera "fonte" di ogni informazione e di ogni conoscenza, la cui frammentazione in "dati" o in "documenti" utili non è che la manifestazione visibile di elementi immateriali fondanti qualsiasi realtà: tralasciare o fingere di dimenticare questo aspetto pone immediatamente qualsiasi gestione della conoscenza al di fuori dell'umanesimo. La conoscenza, come ha affermato recentemente Laurence Prusak in un incontro diretto, non è "gestibile": è una sorta di miracolo energetico che, semplicemente, "accade", e che si appoggia e si fonda sul mantenimento di quell'unità antropologica e, soprattutto, "a ogni costo" (espressione che va presa, specialmente nel nostro caso, anche nel suo senso economico).
 

Note

[1] L'Australian Centre for International Business <www.ecom.unimelb.edu.au> ha stilato un elenco dei siti web di organizzazioni che presentano sistematicamente informazioni sulla diversità: 13 australiane, 6 britanniche, 28 statunitensi, 5 canadesi

[2] Conferenza generale, novembre 2001 <www.unesco.it/strumenti/documenti/ testi/dich_diversita.doc>

[3] Per un dibattito abbastanza recente sul tema: Giuseppe Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica. Rizzoli, 2000, che distingue - in modo che mi sembra non del tutto risolto e, in ogni caso, sempre negativamente - fra pluralismo e multiculturalismo; il primo tenderebbe cioè alla dissoluzione della cultura minoritaria in quella dominante e il secondo esalterebbe le reciproche contrapposizioni, diciamo così, fondamentalistiche

[4] Anche qui c'è un documento ufficiale del 2001, il Green paper della Commissione dell'UE Promoting a European framework for Corporate Social Responsibility <europa.eu.int/comm/employment_social/news/2001/oct/socpolag/csr_communication.pdf>

[5] <www.gruppocerfe.org>

[6] Come, per esempio, il Corso per l'integrazione professionale in posizioni apicali di immigrati/e altamente qualificati/e finanziato al CERFE dalla Regione Toscana, che si rivolge a immigrati sub-sahariani laureati o pluri-laureati, fra i 25 e i 40 anni, regolarmente residenti in Toscana, e che prevede più di 400 ore di formazione di didattica variamente residenziale e a distanza, integrata da visite di studio e interventi ad hoc, più 4 mesi di inserimento lavorativo in imprese pubbliche, private e non-profit. Da rimarcare l'articolazione, che ci sembra esemplare, delle strategie formative ("empowerment" sulla cultura italiana e sull'identità africana, "conoscenza" per superare il gap fra conoscenze/capacità possedute e quelle necessarie per l'inserimento lavorativo qualificato, "coscientizzazione" dello specifico valore aggiunto posseduto) e delle materie e dei temi trattati (cicli di progetto, capitale sociale, knowledge management, comunicazione, internship, competitività, integrabilità, gestione del "ritorno", processi di globalizzazione), nonché delle forme di assistenza (tutta completa, la famosa triade mentoring, tutoring, monitoring)

[7] Come, per esempio, in formato tradizionale "Omega, mensile sulle migrazioni e la globalizzazione" e, in formato elettronico, <www.africansocieties.org> "monthly e-magazine on the invisible Africa" in versione trilingue (inglese, francese, italiano) con intenzione di sfruttare le interattività consentite dal mezzo come forum e conferenze elettroniche a tema. (Da raccomandare agli organizzatori è la registrazione delle riviste elettroniche presso l'autorità ISSN)


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