Bollettino telematico di filosofia politica

Il labirinto della
cattedrale di Chartres
Online journal of political philosophy  
Home > Classici 22/06/2004

L'illegittimità della ristampa dei libri

Traduzione dall'originale tedesco di Maria Chiara Pievatolo

La copia letterale e la distribuzione di questa pagina nella sua integrità  sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che questa nota sia riprodotta.


Quelli che vedono l'edizione di un libro come l'uso della proprietà riferita a una copia (Exemplar) (che può essere pervenuta al possessore o dal redattore, come manoscritto, o da un editore già presente, come stampa) e vogliono tuttavia restringerne l'uso tramite la riserva di certi diritti o del redattore, o dell'editore da lui investito, così che non si abbia licenza di ristamparla - non possono giungere allo scopo in questo modo. Infatti la proprietà del redattore sui suoi pensieri (se pure si conceda che essa abbia luogo secondo diritti esterni) rimane a lui indipendentemente dalla ristampa; e poiché non può convenientemente darsi una adesione esplicita dei compratori di un libro a una tale restrizione della loro proprietà [1], quanto meno sarà sufficiente all'obbligazione una adesione meramente presunta?

Ma io credo di aver motivo di considerare l'edizione non come il commercio di una merce in proprio nome, bensì come la conduzione di un negozio in nome di un altro, cioè il redattore, e di poter in questo modo rappresentare facilmente e chiaramente l'illegittimità del ristampare. Il mio argomento è contenuto in un sillogismo, che prova il diritto dell'editore; a questo ne segue un secondo, che deve confutare la pretesa del ristampatore.

Chi conduce un negozio di un altro in nome suo, e tuttavia contro la sua volontà, è tenuto a cedere a lui o al suo procuratore ogni utile che gliene possa sorgere, e a compensare ogni danno che ne deriva al primo o al secondo.

Ora, il ristampatore è colui che conduce un negozio di un altro (l'autore) etc.; dunque è tenuto a cedere a questo o al suo procuratore (l'editore) etc.

Il primo punto della premessa minore è: l'editore conduce, tramite l'edizione, un negozio di un altro. Qui tutto dipende dal concetto di un libro o di uno scritto in generale, come lavoro del redattore, e dal concetto dell'editore in generale (sia o no autorizzato): se cioè il libro sia una merce, che l'autore può fare oggetto di traffico col pubblico, [im]mediatamente o tramite la mediazione di un altro e dunque trasferire con o senza la riserva di certi diritti, oppure se sia piuttosto un mero uso delle sue forze (opera), che certamente può accordare (concedere) ma mai trasferire (alienare); inoltre, se l'editore conduca un negozio suo a suo nome, o un negozio non suo in nome di un altro.

In un libro, in quanto scritto, l'autore parla al suo lettore; e chi lo ha stampato non parla, tramite la sua copia, per se stesso, ma totalmente in nome del redattore. Lo stampatore produce l'autore in quanto parla pubblicamente (öffentlich) e media soltanto la consegna di questo discorso al pubblico. La copia di questo discorso, in manoscritto o a stampa, può appartenere a chiunque; dunque usarla per sé o farne commercio è un affare che ogni suo proprietario può compiere a proprio nome e a sua discrezione. Soltanto far parlare qualcuno pubblicamente (öffentlich), portare il suo discorso come tale nel pubblico, significa parlare a suo nome e nello stesso tempo dire al pubblico: “Per mio tramite uno scrittore fa riportare letteralmente questo o quello, fa insegnare etc. Io non rispondo di nulla, nemmeno della libertà che si prende nel parlare in pubblico per mio tramite; io sono solo l'intermediario che permette di raggiungervi”; questo è senza dubbio un negozio che si può compiere solo in nome di un altro e mai in nome proprio (come editore). E' vero che l'editore acquisisce a suo nome lo strumento muto della consegna di un discorso dell'autore al pubblico[2]; ma portare nel pubblico tramite la stampa il discorso pensato e così mostrarsi come colui per il cui tramite l'autore gli parla, questo lo può fare solo in nome di un altro.

Il secondo punto della premessa minore è: il ristampatore intraprende il negozio (dell'autore) non solo senza la licenza del proprietario, ma anche contro la sua volontà. Infatti, poiché egli mette le mani nel negozio di un altro, che è autorizzato all'edizione dallo stesso autore, si chiede se l'autore possa conferire ancora a un altro la medesima autorizzazione e consentirvi. Ma è chiaro che, dal momento che ognuno dei due – il primo editore e chi in seguito si arroga l'edizione (il ristampatore) – condurrebbe il negozio dell'autore con un unico e medesimo pubblico nella sua interezza (ganz), l'elaborazione dell'uno dovrebbe rendere quella dell'altro inutile e dannosa per ciascuno di loro; quindi è impossibile un contratto dell'autore con un editore con la riserva di poter permettere ancora a qualcun altro all'infuori di lui, l'edizione della sua opera; di conseguenza, l'autore non può essere stato legittimato ad emanare una licenza a nessun altro (come ristampatore), e pertanto non si può neppure presumere che questi abbia tale licenza dall'autore stesso; di conseguenza, la ristampa è un negozio intrapreso interamente contro la volontà autorizzata del proprietario e nondimeno a suo nome.

* * *

Da questa ragione segue anche che non viene leso l'autore, ma il suo editore autorizzato. Infatti, perché l'autore ha ceduto interamente e senza riserva all'editore il suo diritto in merito all'amministrazione del suo negozio col pubblico, e anche quello di disporne altrimenti, questi soltanto è proprietario della sua conduzione, e il ristampatore danneggia, nel suo diritto, l'editore e non il redattore.

* * *

Ma poiché non si deve considerare di per sé inalienabile (ius personalissimum) questo diritto alla conduzione di un negozio, il quale può essere svolto con puntuale esattezza altrettanto bene anche da un altro – se non si è concluso nessun accordo particolare -, l'editore ha l'autorizzazione a cedere il suo diritto di edizione anche a un altro, perché egli è titolare della procura; e dal momento che il redattore è necessariamente d'accordo, chi intraprende il negozio di seconda mano non è un ristampatore, bensì un editore legittimamente autorizzato, cioè qualcuno cui l'editore investito dall'autore ha ceduto la sua procura.

Deve ancora aver risposta la domanda se, per la circostanza che l'editore aliena nel pubblico l'opera del suo autore, non scaturisca dalla proprietà della copia anche il consenso da parte dell'editore (e dunque anche dell'autore che gli diede la procura) a qualsiasi suo uso, e di conseguenza anche alla ristampa, per quanto spiacevole possa essergli. Infatti, forse l'editore è stato attirato dal vantaggio di intraprendere il suo negozio a questo rischio, senza precludervi l'acquirente con un contratto esplicito, perché avrebbe potuto annullare il suo affare. Che la proprietà della copia non dia questo diritto, lo dimostro col seguente ragionamento:

Un diritto affermativo personale nei confronti di un altro non può mai essere fatto risultare esclusivamente della proprietà di una cosa
Ora, il diritto all'edizione è un diritto affermativo personale
Di conseguenza, non può mai essere fatto risultare esclusivamente dalla proprietà di una cosa (la copia).

Qualcuno ha un diritto alla cosa di cui può disporre a proprio nome a sua discrezione. Ma un negozio che si può fare solo in nome di un altro è svolto in modo tale che l'altro viene obbligato per la circostanza che è come se questo negozio fosse condotto da lui stesso (quod quis facit per alium, ipse fecisse putandus est). Dunque il mio diritto alla conduzione di un negozio in nome di un altro è un diritto affermativo personale, cioè un diritto di obbligare l'autore del negozio a prestare qualcosa, vale a dire a rispondere per tutto quello che fa compiere tramite me, o per ciò a cui, attraverso di me, si rende vincolato. Ora, l'edizione è un discorso al pubblico (tramite la stampa) in nome del redattore, e di conseguenza un negozio in nome di un altro. Quindi il diritto all'edizione è un diritto dell'editore nei confronti di una persona, non semplicemente di difendersi contro di lui nell'uso discrezionale della sua proprietà, bensì di obbligarlo a riconoscere per suo proprio e a rispondere di un certo negozio, che l'editore conduce in nome suo – perciò, un diritto affermativo personale.

* * *

La copia, su cui l'editore esercita la stampa, è un'opera dell'autore (opus) e appartiene interamente all'editore dopo che questi ne ha trattato l'acquisto, in manoscritto o a stampa, per farne tutto quello che vuole e che può essere compiuto in proprio nome; questo, infatti, è un requisito del diritto perfetto su una cosa, cioè della proprietà. Ma l'uso, che egli non può fare se non soltanto in nome di un altro (cioè il redattore), è un negozio (opera) che questo altro compie attraverso il proprietario della copia, per il quale oltre la proprietà si richiede in più un contratto speciale.

Ora, l'edizione di un libro è un negozio che può essere condotto solo in nome di un altro, cioè l'autore, che l'editore presenta come parlante al pubblico per suo tramite; dunque il relativo diritto non può appartenere ai diritti che sono annessi alla proprietà di una copia, ma può diventare legittimo solo in virtù di uno speciale contratto con il redattore. Chi pubblica senza un tale contratto con il redattore (o, se questi ha già concesso un simile diritto a un altro come autentico editore, senza contratto con quest'ultimo) è il ristampatore, il quale dunque lede l'autentico editore e deve risarcirgli ogni danno.

Che l'editore conduca il suo negozio di editore non meramente a suo proprio nome ma a nome di un altro[3] (cioè il redattore) e che non lo possa fare senza la sua autorizzazione, è comprovato da certe obbligazioni, che, per riconoscimento generale, sono annesse all'editore. Se il redattore fosse morto dopo che ha consegnato il suo manoscritto all'editore per la stampa e questi vi si è reso obbligato, quest'ultimo non è libero di trattenere il manoscritto come sua proprietà, ma il pubblico ha, in mancanza di eredi, il diritto di costringerlo all'edizione o a cedere il manoscritto a un altro che offra di pubblicarlo. Prima, infatti, era un negozio che l'autore voleva svolgere con il pubblico per suo tramite, per il quale egli si offriva come conduttore di negozi. Il pubblico non era neppure in bisogno di conoscere questa promessa del redattore, né di accettarla; ottiene questo diritto sull'editore (di fornire qualcosa) esclusivamente per legge. Perché l'editore possiede il manoscritto solo alla condizione di usarlo per un negozio dell'autore con il pubblico; questa obbligazione nei confronti del pubblico rimane, anche se quella nei confronti dell'autore è cessata con la sua morte. Qui non viene posto a fondamento un diritto del pubblico al manoscritto, bensì al negozio con l'autore. Se l'editore, dopo la sua morte, facesse uscire l'opera dell'autore mutilata o falsificata, o facesse mancare copie in numero occorrente alla domanda, allora il pubblico avrebbe la facoltà di costringerlo a una maggiore correttezza o a un aumento della tiratura, e altrimenti di procurarsela altrove. Tutto questo non potrebbe aver luogo se il diritto dell'editore non fosse derivato da un negozio che egli conduce fra il pubblico e l'autore, in nome di quest'ultimo.

A questa obbligazione dell'editore, che presumibilmente sarà concessa, deve però corrispondere anche un diritto fondato su di essa, e cioè il diritto a tutto ciò senza cui quella obbligazione non potrebbe essere adempiuta. Questo diritto è: che egli eserciti il diritto di edizione in modo esclusivo, perché la concorrenza di altri al suo negozio gliene renderebbe la conduzione praticamente impossibile.

Di contro, le opere d'arte, come cose, possono essere copiate, sulla base di un loro esemplare che si è legittimamente acquistato, e riprodotte, e le loro copie possono essere fatte pubblicamente oggetto di traffico senza il consenso dell'artefice del loro originale, o di coloro di cui si è servito come tecnici per le sue idee. Un disegno che qualcuno ha tracciato, o ha fatto incidere da un altro nel rame, o realizzare in pietra, metallo o gesso, può essere impresso o colato da chi compra questi prodotti, e così essere reso pubblicamente oggetto di traffico; così come non ha bisogno dell'assenso di un altro tutto quello che qualcuno può fare con una cosa sua, a suo proprio nome. La Dattilioteca di Lippert può essere copiata ed esposta alla vendita da ogni possessore che la capisca, senza che il suo inventore possa lamentare intrusioni nei suoi affari. Infatti è un'opera (opus, non opera alterius) che ciascun suo possessore può alienare, senza mai menzionare il nome dell'artefice, e quindi anche copiare e usare a suo nome come propria in un pubblico traffico. Ma lo scritto di un altro è il discorso di una persona (opera) e chi la pubblica può parlare al pubblico solo in nome di questo altro e di sé non può aggiungere nulla se non che il redattore per suo tramite (Impensis Bibliopolae ) tiene al pubblico il seguente discorso. Infatti è una contraddizione tenere in proprio nome un discorso che pure, per proprio annuncio e in conformità alla richiesta del pubblico, deve essere il discorso di un altro. Dunque, la ragione per la quale tutte le opere d'arte altrui possono essere copiate per il pubblico traffico, ma i libri che hanno già i loro editori autorizzati non possono essere ristampati consiste in questo: le prime sono opere (opera), i secondi azioni (operae); quelle sono come cose esistenti di per se stesse, mentre questi possono avere il loro esserci solo in una persona. Di conseguenza, questi ultimi spettano esclusivamente alla persona del redattore[4] e questi ha un diritto inalienabile (ius personalissimum) di parlare sempre egli stesso attraverso quell'altro: nessuno, cioè, può tenere il medesimo discorso al pubblico altrimenti che in suo (dell'autore) nome. Se però si modifica il libro di un altro (abbreviandolo, ampliandolo o rielaborandolo) tanto che che si commetterebbe anche ingiustizia, se lo si facesse poi uscire in nome dell'autore dell'originale, allora la rielaborazione fatta a proprio nome dal curatore non è una ristampa e non è proibita. Infatti in questo caso un altro autore compie, rispetto al primo, un negozio tramite il suo editore e non si intromette nel suo negozio col pubblico; l'editore non presenta quell'autore come parlante attraverso di lui, bensì un altro. Neanche la traduzione in un'altra lingua può essere ritenuta una ristampa, perché non è il medesimo discorso del redattore, sebbene i pensieri possano essere gli stessi.

Se l'idea di una edizione di libri in generale qui posta a fondamento fosse ben compresa ed elaborata con l'eleganza richiesta dalla giurisprudenza romana (come mi lusingo sia possibile), la querela contro il ristampatore potrebbe ben essere portata davanti ai tribunali senza la necessità di sollecitare preliminarmente una nuova legge a questo scopo.



[1] All'acquisto della sua opera edita, un editore oserebbe mai vincolare ognuno alla condizione di essere accusato a causa dell'appropriazione indebita di un bene altrui affidato a lui, se l'esemplare comprato fosse ristampato di proposito o anche per una sua disattenzione? Difficilmente qualcuno darebbe il suo consenso, perché, in questo modo, si esporrebbe a tutti i disagi dell'inchiesta e della responsabilità. L'edizione, quindi, gli rimarrebbe sulle spalle.

[2] Un libro è lo strumento della consegna al pubblico di un discorso, e non semplicemente dei pensieri, come le immagini, rappresentazione simbolica di una qualche idea o evento. Qui l'aspetto più essenziale sta nella circostanza che non è una cosa a venire così consegnata, bensì un'opera, cioè un discorso, e certamente alla lettera. Chiamandolo muto strumento, lo distinguo da ciò che consegna il discorso attraverso un suono, come ad esempio è un megafono, o anche la stessa bocca altrui.

[3] Se l'editore è contemporaneamente anche redattore, i due negozi sono tuttavia distinti; ed egli pubblica in qualità di commerciante ciò che ha scritto in qualità di studioso. Ma possiamo mettere da parte questo caso e limitare la nostra discussione solo a quello in cui l'editore non è nello stesso tempo redattore; sarà poi facile estendere la deduzione anche al primo caso.

[4] L'autore e il proprietario della copia possono dire entrambi della medesima cosa, con uguale diritto, “è il mio libro”, ma in senso diverso. Il primo prende il libro come scritto o discorso; il secondo semplicemente come il muto strumento della consegna del discorso a lui o al pubblico, cioè come copia. Ma questo diritto del redattore non è un diritto sulla cosa, cioè sulla copia (infatti il proprietario può bruciarla davanti agli occhi del redattore), bensì un diritto innato nella sua propria persona, cioè il diritto di impedire che un altro lo faccia pronunciare al pubblico senza il suo assenso – il quale assenso non può essere presunto, perché lo ha già concesso in via esclusiva a un altro.


Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons License