Questo saggio è edito in Le comunità virtuali
e i saperi umanistici, a cura di Paola Carbone e Paolo Ferri,
Mimesis, Milano, 1999, pp. 219-242 [per acquistare il libro su Internet
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0. Premessa
Questo intervento intende discutere alcuni problemi – a mio avviso
particolarmente rilevanti – collegati al concetto di ipertesto,
e in particolare all’uso di ipertesti con funzione argomentativa.
Naturalmente, la scelta di guardare alla complessa ragnatela di
questioni teoriche collegate all’ipertestualità dal particolare
punto di vista costituito dall’analisi delle strutture argomentative
deriva in gran parte dalla mia formazione, più filosofica che letteraria.
Alla base di tale scelta è però anche una precisa convinzione teorica.
Se è vero infatti che, in ambito umanistico, la discussione sugli
ipertesti ha finora riguardato soprattutto il settore della critica
letteraria (e spesso, purtroppo, solo una ‘punta avanzata’ di tale
settore), è altrettanto vero che questa discussione e molte fra
le conclusioni avanzate in tale contesto presuppongono opzioni interpretative
che possono invece riguardare, e in maniera molto diretta, il lavoro
di chi si interessa di filosofia.
Il fatto che l’attenzione dedicata a quelle
che potremmo considerare le ‘premesse metodologiche’ della discussione
sul concetto di ipertestualità sia ancora in parte carente, non
può del resto stupire. Il dibattito sul concetto di ipertesto e
sulle possibili funzioni della scrittura ipertestuale è infatti
abbastanza recente, strettamente legato a due fattori direttamente
dipendenti dallo sviluppo tecnologico: da un lato la disponibilità
di strumenti software in grado di permettere la scrittura e la lettura
(navigazione) di ipertesti complessi, dall’altro la crescita rapidissima
di World Wide Web, la ragnatela di pagine informative disponibili
su Internet, che costituisce l’esempio più diffuso di organizzazione
ipertestuale (o meglio, ipermediale) dell’informazione.
Se questo collegamento con lo sviluppo
dell’informatica e della telematica sembra fare dell’area di studio
che qui ci interessa un territorio strettamente legato all’evoluzione
tecnologica, va d’altro canto ricordato che la discussione sulla
linearità e sulle possibili forme di non linearità dei testi non
è certo tematica nuova, né in ambito semiologico, né in ambito più
propriamente filosofico (nel quale, come vedremo, la questione della
linearità del testo si intreccia con quella della linearità del
pensiero e del ragionamento).
L’interesse anche filosofico di questa
tematica è stato sottolineato più volte, ma le discussioni esplicite
del rapporto fra ipertesti e filosofia sono rare. Fra le eccezioni,
la più significativa è probabilmente quella rappresentata da David
Kolb, che ha dedicato all’argomento diversi interventi, e in particolare
un saggio per molti versi pionieristico, Socrates in the Labyrinth,
disponibile in due forme diverse: come più tradizionale ‘articolo
accademico’, e,
in una versione più ampia e strutturalmente più complessa, come
ipertesto.
L’obiettivo di questo breve intervento
è discutere alcune fra le tesi avanzate da Kolb, e - partendo da
tale discussione - proporre alcune considerazioni generali sulla
possibile dimensione ipertestuale del discorso filosofico, e in
particolare di quello argomentativo. Tali considerazioni avranno
comunque il carattere di suggerimenti puramente parziali, ipotetici
e provvisori: il campo studiato è infatti per molti versi ancora
troppo fluido e inesplorato perché si possa aspirare a sistematizzazioni
teoriche complessive e soddisfacenti.
Pur parlando di ipertesti, le pagine
che seguono hanno una struttura assolutamente tradizionale e lineare.
Un primo paragrafo è dedicato alla presentazione del concetto di
ipertesto, una presentazione necessaria anche perché - come vedremo
- la concezione di ipertestualità che viene adottata può influenzare
direttamente gli esiti di una ricerca sul rapporto fra ipertesti
e filosofia. Il secondo paragrafo è dedicato a una esposizione sommaria
delle posizioni di Kolb. Il terzo paragrafo è dedicato alla loro
analisi, e alla discussione critica di alcuni dei presupposti che
sembrano caratterizzare la sua impostazione. Il quarto paragrafo
fornisce alcune conclusioni generali, e indica possibili linee di
ricerca future.
1. Il concetto di ipertesto
Nella sua caratterizzazione più comune,
il concetto generale di ipertesto può sembrare piuttosto semplice:
un ipertesto consiste di un insieme di blocchi testuali (chiamati
spesso lessie)
e di un insieme di collegamenti e rimandi (link) istituiti
fra tali blocchi, fra porzioni di tali blocchi, o all’interno di
un singolo blocco. Dal punto di vista formale, dunque, un ipertesto
può essere visto come un grafo i cui nodi corrispondono a blocchi
testuali o a porzioni di blocchi testuali, e le cui frecce o relazioni
corrispondono ai link istituiti fra i nodi. Quando almeno alcuni
dei nodi corrispondono, anziché a blocchi testuali, a informazioni
di altra natura (immagini, suoni, filmati...), si parla in genere
di ipermedia.
Se su questa definizione generale concorderebbe probabilmente la maggior parte degli
studiosi del settore; alcune delle sue possibili conseguenze sono assai
meno pacifiche. Questo perché, pur senza in genere includerle esplicitamente
nella definizione di ipertesto, la maggior parte dei teorici dell’ipertestualità
sembra presupporre una serie di assunzioni ulteriori, fra le quali
vanno ricordate le seguenti: 1) un requisito di almeno parziale
‘indipendenza’ fra i blocchi costitutivi dell’ipertesto; 2) l’idea
dell’assenza di un ‘percorso privilegiato’ all’interno dell’ipertesto,
idea che nella sua versione più radicale implica l’assenza di un
‘punto di ingresso’ e di un ‘punto di uscita’ definiti (la lettura
di un ipertesto può in questo caso iniziare da uno qualunque dei
suoi blocchi costitutivi), o addirittura la possibilità per il lettore
di aggiungere autonomamente nodi e link; 3) l’idea che la struttura
di un ipertesto sia in qualche misura ‘debole’, svincolando il lettore
da gerarchie predefinite; 4) l’idea che di conseguenza l’ipertesto realizzi
una ‘liberazione’ del lettore, al quale viene affidata una funzione
attiva e non passiva nella scelta dei propri percorsi di lettura.
Queste tesi sono naturalmente interessanti,
e possono effettivamente caratterizzare, in misura maggiore o minore,
molti esempi di scrittura ipertestuale; va detto tuttavia che non
si tratta in alcun modo di conseguenze dirette della definizione
generale sopra ricordata, e che in alcuni casi (ad esempio per il
requisito di ‘indipendenza’ dei blocchi costitutivi dell’ipertesto)
può essere assai difficile esplicitarne in maniera rigorosa il significato.
Per rendersi conto del contesto nel quale sono generalmente avanzate,
va ricordato che la discussione teorica sugli ipertesti è stata
fortemente influenzata da tematiche che potremmo chiamare, in senso
generale, decostruzioniste e post-strutturaliste. I blocchi costitutivi
di un ipertesto sono così ad esempio avvicinati da Landow ai morceaux,
ai frammenti di testo “strappati coi denti”, risultato della “metodologia
della decomposizione” applicata da Derrida al linguaggio. L’impressione
che se ne ricava è quella di una definizione spesso ‘militante’
del concetto di ipertesto, considerato come la risposta teorica
al riconoscimento del carattere non strutturato, fluido, aperto
e polisemico dei testi, e in definitiva come il modello testuale
caratteristico della post-modernità.
Mi sembra tuttavia decisamente preferibile
mantenere queste considerazioni - indipendentemente dal maggiore
o minore grado di accordo che si può avere con alcune di esse -
esterne alla definizione e alla discussione teorica del concetto
di ipertesto. Dal mio punto di vista, dunque, la definizione di
ipertesto si limita a descrivere una struttura formale di organizzazione
testuale. La rinuncia, almeno in prima istanza, alle assunzioni
ulteriori sopra ricordate, ha peraltro alcune conseguenze che è
bene esplicitare. Innanzitutto, possiamo pensare anche a un singolo
blocco testuale come a una forma ‘degenere’ di ipertesto - una possibilità
che potrà rivelarsi utile volendo analizzare un ipertesto complesso
in strutture ipertestuali più semplici. In secondo luogo, anche
un testo lineare del tutto tradizionale può ricadere all’interno
della definizione di ipertesto appena proposta: potete ad esempio
pensare all’articolo che state leggendo come a un insieme di cinque
blocchi testuali (corrispondenti alla premessa e alle quattro sezioni
che lo compongono), con dei link che vanno dalla fine del primo
blocco all’inizio del secondo, dalla fine del secondo all’inizio
del terzo, e così via. Da questo punto di vista, il concetto di
ipertesto non è necessariamente contrapposto a quello di testo lineare,
ma è semplicemente più generale, anche se naturalmente quando si parla di ipertesti
in senso stretto ci si riferisce di norma a testi non lineari. Un
discorso analogo vale per i cosiddetti ‘grafi ad albero’, nei quali
i link vanno sempre dall’alto in basso, e costruiscono ramificazioni
indipendenti. In questi casi, al contrario di quanto presupposto
dalla terza e dalla quarta delle assunzioni sopra ricordate, l’ipertesto
è caratterizzato da una struttura tale da rendere soggetti a vincoli
piuttosto stretti i movimenti del lettore al suo interno.
Va ricordato inoltre - anche se può sembrare
un’osservazione scontata - che i collegamenti creati fra i nodi
di un ipertesto sono di norma (e di necessità) solo un sottoinsieme
assai limitato di quelli possibili. Davanti all’orizzonte di tutti
i link che potrebbero essere istituiti, l’autore o gli autori dell’ipertesto
ne scelgono alcuni: questa scelta, che deve essere esplicita
(poco importa, da questo punto di vista, se nella sua costituzione
siano fatte intervenire da parte dell’autore variabili aleatorie,
o addirittura una qualche forma di collaborazione con il lettore),
corrisponde comunque alla creazione di una struttura forte, anche
se a volte assai complessa.
Adottando una concezione puramente ‘formale’
dell’ipertesto, diviene possibile distinguere gradi diversi di ipertestualità,
o di complessità ipertestuale, partendo da un grado zero corrispondente
a un singolo nodo testuale privo di link. Senza voler presentare
in questa sede teorie rigorose al riguardo, possiamo suggerire,
come fattori da tener presente nel valutare la complessità ipertestuale,
il rapporto fra numero dei nodi e numero dei link, la tipologia
del grafo, il numero dei nodi accettati come punti di ingresso e
di uscita, l’esistenza o meno della possibilità di aggiungere ed
eliminare dinamicamente nodi e link da parte dell’autore o del lettore.
Un’impostazione di questo tipo suggerisce inoltre di riformulare
una serie di problemi tradizionalmente connessi con la scrittura
ipertestuale, fra i quali quello che costituisce l’interrogativo
di partenza di Kolb. Questioni come “è possibile una letteratura
ipertestuale?” o “è possibile una filosofia ipertestuale?” ricevono
infatti una risposta affermativa del tutto ovvia (e poco informativa)
nel momento in cui consideriamo la scrittura lineare come caso particolare
di quella ipertestuale. Per individuare problemi più interessanti
dovremo chiederci piuttosto se i testi letterari (o quelli filosofici)
ammettano gradi diversi di complessità ipertestuale, quali, e in
quali circostanze.
Un ultimo punto che merita una discussione
preliminare, è quello del rapporto fra ipertestualità e intertestualità.
Ricordiamo che il concetto di intertestualità si riferisce al variegato
intrecciarsi di riferimenti impliciti ed espliciti, citazioni, rimandi,
codici, usi linguistici, che collegano qualsiasi opera letteraria
all’universo testuale che la circonda, un oggetto aperto e polisemico,
capace di ‘indicare’ in una pluralità di modi le molte ‘cornici’
linguistiche, culturali, sociali del testo. Un ‘luogo comune’
della ricerca teorica sugli ipertesti è l’idea che la costruzione
ipertestuale permetta di far emergere esplicitamente la dimensione
intertestuale propria di qualunque testo (il riferimento privilegiato
è ai testi letterari, che presentano di norma una dimensione intertestuale
e connotativa particolarmente ricca). Questa concezione sembra ricollegarsi
al processo di trasformazione di un testo, o di una costellazione
di testi, in ipertesto. In questi casi, l’autore cercherà probabilmente
di rendere esplicita, attraverso la creazione di specifici nodi
ipertestuali, almeno una parte della ricchezza spesso indefinita
di citazioni, rimandi impliciti, riferimenti culturali e sociali,
che costituiscono l’universo intertestuale del testo o dei testi
di partenza.
Se questo modello corrisponde di fatto
a procedure plausibili di costruzione di un ipertesto, va detto
tuttavia che l’idea secondo cui la forma-ipertesto corrisponde a
una naturale evoluzione della dimensione intertestuale propria di
un testo lineare, può risultare per certi aspetti fuorviante. Innanzitutto,
perché anche un ipertesto possiede una propria dimensione intertestuale.
Sarebbe infatti ovviamente assai ingenuo ritenere che attraverso
un ipertesto si possa “rendere tutto esplicito”; al contrario -
e si tratta di un punto sul quale torneremo - un ipertesto complesso,
ricco di unità costitutive e di rimandi, avrà probabilmente una
intertestualità ancor più ricca di quella che avrebbe un testo lineare.
Va sottolineato poi che, dal punto di vista della concezione di
ipertesto qui adottata, esiste una differenza di fondo fra una caratteristica
- l’ipertestualità - che ha in primo luogo a che fare con la struttura
formale del testo, e una caratteristica - l’intertestualità - che
ha in primo luogo a che fare con la sua capacità significativa e
connotativa.
2. Socrate nel labirinto
Come si è accennato, David Kolb ha scritto
Socrates in the Labyrinth in due diverse versioni, una lineare
(un ‘tradizionale’ articolo accademico) e una pienamente ipertestuale.
Per comodità espositiva seguiremo qui la versione lineare, notando
tuttavia che la struttura argomentativa delle due versioni appare
differente; mentre la versione ipertestuale sembra prendere più
decisamente posizione a favore della utilità degli ipertesti per
la riflessione filosofica, la versione lineare discute la questione
in maniera maggiormente neutrale, giungendo a conclusioni più aperte
e problematiche. Sarebbe interessante analizzare se e come questa
differenza, che ha colpito anche altri commentatori, ma che l’autore non prevedeva e non ha introdotto intenzionalmente, sia collegata alla diversa struttura testuale
dei due lavori; ma un’analisi di questo genere sottrarrebbe troppo
dello spazio disponibile in questa sede.
L’articolo di Kolb si apre con una enunciazione
dei problemi affrontati, che è senz’altro opportuno riportare per
esteso:
Can we do philosophy
using hypertext? What kind of work might a philosophical hypertext
do? Could it do argumentative work, or would any linear argument
be a subordinate part of some different hyperwork? But what is thinking
if not linear?
Va subito notato come la prospettiva adottata
da Kolb tenda ad accostare il problema della linearità dei testi
filosofici a quello della linearità del pensiero. Sembra
ragionevole presupporre che se riconoscessimo nel pensiero un fenomeno
non lineare, avremmo un buon argomento a favore dell’utilità di
strumenti non lineari nella sua espressione attraverso un testo,
e che se d’altro canto riconoscessimo la linearità come fattore
essenziale di un testo filosofico, avremmo un argomento (anche se
forse non altrettanto buono) a favore della linearità del pensiero,
o almeno del pensiero argomentativo. È chiaro tuttavia che queste
tesi, pur plausibili, non sono in alcun modo scontate, e possono
essere assai difficili da argomentare. Lasciamole, per il momento,
sullo sfondo.
Il passo successivo di Kolb è l’individuazione
di quattro possibili usi ‘soft’ degli ipertesti in filosofia: quattro
casi in cui l’uso di strumenti ipertestuali aiuterebbe il filosofo,
senza tuttavia cambiarne le abitudini argomentative, considerate
da Kolb come fondamentalmente lineari: 1) la possibilità di costruire
un indice ‘strutturale’ del contenuto di un testo lineare, che evidenzi
la scansione e la successione delle parti; 2) la possibilità di
affiancare a un testo lineare (o a un corpus di testi lineari) un
apparato di note, glosse, commenti, riferimenti bibliografici, e
così via; 3) la possibilità di ‘sovraimporre’ a una edizione di
scritti lineari di un filosofo una rete di collegamenti incrociati
fra le diverse opere o fra sezioni diverse di uno stesso testo,
mettendo in rilievo collegamenti tematici e argomentativi che sarebbero
altrimenti difficili da cogliere; 4) la possibilità di costruire
un ipertesto collaborativo dinamico che funga da ‘luogo’ di discussione
e dibattito fra più filosofi.
Queste quattro possibilità sono evidentemente
disposte da Kolb in ordine crescente di complessità; a suo avviso,
comunque, in tutti questi casi
hypertext
still functions as a presentation medium that remains subservient
to the traditional goals and organization of philosophy. For the
most part, links would embody the standard moves of argumentation
- making claims, giving backing, contesting claims, raising questions,
stating alternatives, and so on. The text would be multilinear but
would remain organized around the familiar philosophical forms of
linear argument.
Sono possibili usi “più radicali” degli
ipertesti in filosofia? Nel cercare una risposta affermativa - nota
Kolb - può sembrare naturale rivolgersi a forme di letteratura filosofica
diverse dalla tradizionale argomentazione lineare. Possiamo pensare,
in quest’ottica, alle raccolte di meditazioni, pensieri, aforismi,
ai diari, ai dialoghi. Possiamo pensare a una tradizione che ha
attaccato o semplicemente rifiutato la linearità, e che – aggiunge
ancora Kolb - partendo almeno da Pascal, attraverso Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein, arriva
fino al decostruzionismo contemporaneo. In questo modo, saremmo
portati a contrapporre una tradizione filosofica sostanzialmente
argomentativa e lineare a una tradizione di pensiero più fluido
e meno strutturato, in cui la linearità lascia spazio a una discorsività
non architettonica, non finalizzata al raggiungimento di una conclusione
definita.
Kolb, tuttavia, non si limita a indicare
questa direzione. A suo avviso, i concetti di argomentazione, di
conclusione, di struttura del ragionamento possono essere mantenuti
se riconosciamo il loro carattere non esaustivo. Proprio come sarebbe
sbagliato ignorare che ogni argomentazione, anche la più serrata
e lineare, comporta un universo fluido di presupposizioni (possiamo
a questo proposito richiamare il già ricordato concetto di intertestualità),
we have to be careful
not to make the parallel mistake of saying that the fluid discourse
is itself totally without argumentative structure. The point should
be that argument and fluidity are always linked.
L’ipertesto diviene allora per Kolb il
medium naturale per l’espressione di questa ‘cornice fluida’ che
accompagna qualunque tipo di discorso filosofico, ne rompe la rigidità,
e lo apre verso l’esterno. Da questo punto di vista, sembra suggerire
Kolb, la differenza fra sistemi filosofici fortemente strutturati
e lineari da un lato, e forme di testualità filosofica più libera
e ‘irregolare’ dall’altro, va vista come una differenza fra forme
e manifestazioni alternative di un unico meccanismo di base: un
gioco in cui si intrecciano, in modi certo diversi a seconda dei
diversi autori, argomentazione strutturata e lineare, e intertestualità
fluida e non lineare. Questa prospettiva, nota Kolb, è lontana dalle
posizioni decostruzioniste:
I am not interested
in what is sometimes called deconstruction but is really an attempt
to eliminate any notion of essence and identity. Rather, what interests
me is the maneuver of allowing essences, identities, boundaries
(and argumentative lines and definite claims) while showing how
the claimed essences or unities break their own closure.
La necessità di esprimere testualmente
questo rapporto fra la rigidità delle forme e dei singoli percorsi
argomentativi e la fluidità non lineare delle loro presupposizioni,
di quelli che, con riferimento a Wittgenstein, Kolb chiama “paesaggi”
del testo, prospetta la necessità di strumenti testuali nuovi. Per
tale motivo, Kolb si dichiara programmaticamente interessato a forme
‘intermedie’ di ipertestualità, nelle quali i nodi e i link fra
i nodi danno vita a strutture che mediano fra la semplicità atomistica
delle singole lessie e l’eccessiva complessità e libertà dei rimandi:
We need forms of hypertext
writing that are neither standard linear hierarchical unities nor
the cloying shocks of simple juxtaposition.
E’ a questo tipo di ipertestualità che,
presumibilmente, Kolb affida la risposta positiva ai quesiti di
apertura: è in questo senso che è possibile, e addirittura necessaria,
una filosofia ipertestuale.
3. Argomenti e strutture ipertestuali
La posizione di Kolb è indubbiamente suggestiva,
e presenta il vantaggio (almeno dal mio punto di vista) di non opporre
in linea di principio la scrittura ipertestuale a forme di testualità
filosofica più ‘tradizionali’. L’ipertesto non è proposto come l’arma
per il definitivo, auspicato scardinamento delle strutture argomentative,
ma come la forma più naturale per l’incontro fra argomentazione
e intertestualità. Kolb non cade dunque nella tentazione di considerare
gli ipertesti come strumento di un discorso filosofico necessariamente
frammentario, aforistico, discontinuo. Una tentazione forse naturale,
che troviamo ad esempio chiaramente espressa in un passo di un altro
autore che si è occupato abbastanza estesamente del rapporto fra
ipertesti e filosofia, Jean Clément:
Il existe une littérature
du discontinu qui s'affranchit des contraintes de la rhétorique
narrative ou argumentative. Cette littérature fragmentaire ne constitue
pas un genre mineur, elle a ses lettres de noblesses. De Nietzsche,
à Wittgenstein ou Roland Barthes, elle est le signe d'une écriture
qui cherche à restituer le surgissement de la pensée, s'oppose au
traité, c'est à dire à l'esprit de système, au remplissage, aux
temps morts des transitions. En forme de montage discontinu, elle
trouve sa cohésion non dans la linéarité d'un développement mais
dans le réseau souterrain (et musical) des échos à distance entre
des thèmes sans fin repris et variés (...). C'est cette structure
déconstruite que l'hypertexte invite le lecteur à organiser selon
son bon plaisir, au fil de ses vagabondage.
Posizioni di questo tipo hanno a mio avviso
il limite di trasformare l’adozione di un particolare modello di
organizzazione strutturale del testo in una scelta intrinsecamente
‘militante’, necessariamente connessa a un’operazione di tipo decostruzionista.
Corollario naturale di tale impostazione sembra essere la tesi secondo
cui da un lato solo una scrittura non argomentativa, associativa
e aforistica si adatti ad essere espressa attraverso un ipertesto,
e dall’altro l’ipertesto rappresenti lo strumento espressivo naturale
per forme di scrittura di questo genere. Ci viene in sostanza suggerito
che Nietzche, Wittgenstein, Roland Barthes (per limitarci ai tre
nomi citati da Clément - peraltro talmente diversi nelle impostazioni
teoriche da rendere piuttosto ardita ogni generalizzazione) non
abbiano scritto in forma esplicitamente ipertestuale solo perché
sono stati tanto sfortunati da non disporre degli strumenti tecnici
adeguati; se avessero avuto a disposizione un personal computer,
le loro opere avrebbero avuto senz’altro la forma dell’ipertesto
elettronico.
Non credo sia così, e ritengo che entrambe
le assunzioni di base che sembrano essere alle spalle di queste
posizioni - l’idea che una scrittura non argomentativa sia espressa
al meglio se presentata in forma ipertestuale, e l’idea che un testo
fortemente argomentativo e strutturato debba essere necessariamente
lineare - siano tutt’altro che scontate. Proprio per questo, tuttavia,
mi sembra che la posizione ‘più morbida’ di Kolb presenti anch’essa
alcuni aspetti discutibili.
Da un punto di vista generale, Kolb sembra
riprendere l’idea tradizionale che vede negli ipertesti uno strumento
di ‘esplicitazione’ della dimensione intertestuale propria di qualunque
tipo di testualità. Nel caso della filosofia, questa dimensione
intertestuale accompagnerebbe di norma, come una nuvola diffusa
e dai confini incerti, una componente argomentativa fondamentalmente
lineare.
Ora, la presenza di questa dimensione
intertestuale, anche in un testo fortemente lineare, mi sembra un
dato di fatto difficilmente contestabile. E certo la costruzione
di un ipertesto parte di norma proprio dall’esigenza di rendere
espliciti un certo numero di rimandi e collegamenti che altrimenti
troverebbero difficilmente espressione compiuta, di restituire una
trama di legami e relazioni percepita come caratteristica essenziale
della realtà informativa alla quale il testo dà voce. Ma ritengo
che, per i motivi in parte già discussi nel primo paragrafo, l’idea
che la costruzione di un ipertesto rappresenti una operazione di
semplice esplicitazione di intertestualità, possa essere fuorviante.
Da un lato, infatti, la creazione di un ipertesto è anche - come
qualunque forma di produzione testuale - creazione di un universo
intertestuale, universo la cui ricchezza tenderà di norma a crescere,
anziché a ridursi, con il crescere della complessità dell’ipertesto.
Dall’altro, l’adozione di strutture ipertestuali può avere la funzione
di esprimere informazioni (e relazioni fra informazioni) che difficilmente
considereremmo tradizionalmente intertestuali.
Proviamo a considerare, per illustrare
questa tesi, ma anche per liberarci dall’abitudine (pericolosa)
a pensare solo in termini di modelli troppo ‘letterari’ di testualità,
un esempio un po’ anomalo: la tavola pitagorica. Funzionalmente,
una tavola pitagorica può essere vista come uno strumento per associare
(collegare) graficamente - in base a regole ben determinate - una
coppia di valori (nodi) di partenza a uno e un solo valore (nodo)
di arrivo. Potremo pensare di esprimere ‘linearmente’ queste associazioni,
‘recitando’ la tavola pitagorica: “uno per uno fa uno, uno per
due fa due, uno per tre fa tre...” e così via. Ma l’espressione
matriciale, e dunque multilineare, è molto più comoda. Se voglio
sapere quanto fa sei per sette, non devo percorrere un lungo testo
sequenziale, alla ricerca della risposta “sei per sette fa quarantadue”.
Posso scegliere direttamente, proprio come in un ipertesto classico,
i miei ‘punti di ingresso’; potrò così partire dal nodo ‘sei’ sull’asse
verticale e dal nodo ‘sette’ sull’asse orizzontale, e percorrendo
in un caso la colonna, nell’altro la riga dei nodi ad essi collegati
(i loro multipli), arriverò all’intersezione rappresentata dal nodo
‘quarantadue’.
Probabilmente, non siamo abituati a considerare
una tavola pitagorica come una costruzione ipertestuale. Ma astrattamente
non c’è alcuna ragione per non farlo. Si noti che, come per qualunque
testo, anche ad una tavola pitagorica può essere riconosciuta una
dimensione intertestuale: la tavola pitagorica stampata sull’ultima
pagina di un quaderno è il ‘precipitato’ di una lunga tradizione,
ci parla indirettamente delle nostre scelte di notazione aritmetica
e del fatto che adottiamo una numerazione a base dieci; vi riconosciamo
dei numeri che sappiamo derivati dalla matematica araba, e così
via. Potremmo, volendo, esplicitare una parte di questi rimandi
(attraverso collegamenti ipertestuali di tipo diverso rispetto a
quelli che mettono in relazione i nodi ‘numerici’ della tavola,
e attraverso l’introduzione di nodi testuali - ma nessuno ha mai
detto che i nodi e i link che compaiono in un ipertesto debbano
avere tutti le stesse caratteristiche). E, se lo facessimo, la dimensione
intertestuale dell’ipertesto che ne risulterebbe sarebbe ancora
più ricca. Ma la nostra preferenza per la scelta di esprimere in
maniera matriciale anziché lineare la tabellina non ha niente a
che fare con tutto ciò.
Anche l’altra assunzione di fondo del
testo di Kolb, l’idea che vede nelle componenti più direttamente
argomentative del discorso filosofico strutture fondamentalmente
lineari, sembra presupporre una concezione forse troppo ‘letteraria’
e ‘narrativa’ del concetto di argomentazione. Va detto subito che
lo stesso Kolb indebolisce in parte questa assunzione, riconoscendo
che
for expository convenience
the parts of the argument may come in any order in the text (...).
It is also true that some arguments have multiple beginnings and
branches that jointly support conclusions or diverge from premises(...).
Tuttavia, secondo Kolb, nel primo caso
“the argument will be present only when the underlying
linear abstract structure is indicated in some manner”, e
nel secondo “these [arguments] still arrange into
a unidirectional abstract structure with beginnings, middles, and
ends”. La conclusione è netta:
The conclusion is that
philosophy’s line cannot be dissolved in the way some have dreamed
of dissolving the narrative line.
Le asserzioni appena citate compaiono
in una sezione del testo in cui Kolb assume il punto di vista del
difensore della testualità filosofica tradizionale - ma nel seguito
dell’articolo, come si è visto, Kolb si allontana da questa prospettiva
attraverso il riconoscimento di una dimensione non puramente argomentativa
e non lineare all’interno del testo filosofico, e non attraverso
l’idea della possibile non linearità delle strutture argomentative.
Che il discorso filosofico non possa essere
ridotto a pura argomentazione razionale è senz’altro vero, così
come è vero che l’argomentazione razionale ne costituisce probabilmente
il nucleo fondamentale, o uno dei nuclei fondamentali. Mi sembra
però che Kolb accantoni con eccessiva disinvoltura gli argomenti
da lui stesso portati a favore dell’esistenza di forme non lineari
di argomentazione, senza considerarne a fondo le caratteristiche.
Consideriamo uno dei casi citati da Kolb,
quello che si ha quando parti di un argomento possono comparire
nel testo in un ordine non prefissato. Supponiamo ad esempio che
una conclusione D possa essere dimostrata
a partire dalle premesse A, B, C, e supponiamo di disporre di tre
argomenti indipendenti per (rispettivamente) A, B e C. In questo
caso, il nostro argomento per D sarà costruito
a partire dagli argomenti per A, B e C, che potranno essere utilizzati
in qualsiasi ordine. O meglio: se vogliamo fornire una rappresentazione
lineare dell’argomento per D, potremo usare
gli argomenti per A, B e C in qualsiasi ordine. Normalmente, tuttavia,
la nostra rappresentazione di una situazione di questo genere non
sarà una rappresentazione lineare, ma avrà piuttosto la forma:
Naturalmente, nell’enunciare a parole
- se vogliamo farlo - o nel leggere una dimostrazione di questo
genere seguiremo un ordine, e affronteremo, ad esempio, prima la
dimostrazione di A, poi quella di B, poi quella di C. Ma anche nel
leggere un ipertesto seguiremmo un ordine. L’elemento essenziale
è che in una dimostrazione di questo tipo l’ordine seguito nel dimostrare
A, B e C è strutturalmente arbitrario - una dimostrazione
di questo tipo è strutturalmente multilineare.
Questo non vuol dire, ovviamente, che
tale dimostrazione non abbia una struttura - ma non si tratta di
una struttura lineare. In un caso di questo genere non si può dunque
affermare che l’argomento sia presente “only when
the underlying linear abstract structure is indicated in
some manner”: la struttura astratta dell’argomento esiste
e viene indicata, ma non è lineare. Possiamo pensare più ragionevolmente
di trovarci nel secondo caso, quello in cui si ha a che fare con
una “unidirectional abstract structure with beginnings,
middles, and ends”. Indubbiamente, una dimostrazione del
tipo di quella appena considerata costituisce una struttura orientata,
che può avere alcune premesse (eventualmente scaricate nel corso
della dimostrazione), ha uno svolgimento, ed ha una conclusione
(nel nostro caso, D). Ma anche molti ipertesti
hanno una struttura orientata, con un certo numero di punti di ingresso,
un certo numero di percorsi, e un certo numero di punti di uscita
(o un singolo punto di uscita). Certo, nel nostro caso per potere
‘uscire’ dobbiamo avere seguito tutti i percorsi indicati,
e questo costituisce un requisito forte: chi vuole ripercorrere
la nostra dimostrazione può scegliere l’ordine che preferisce
nel dimostrare A, B e C, ma (se A, B o C non compaiono a vuoto
nella dimostrazione di D) deve prendere
in considerazione le dimostrazioni sia di A, sia di B, sia di C,
se vuole raggiungere la conclusione D.
Questo vuol dire che abbiamo a che fare con un grado ‘intermedio’
di ipertestualità: la dimostrazione non è unilineare, il lettore-dimostratore
dispone al suo interno di una certa libertà di percorso, ma questa
libertà è fortemente limitata da alcuni requisiti strutturali.
Ciò non toglie, tuttavia, che sia nel
considerare astrattamente la struttura dimostrativa sopra considerata,
sia, a maggior ragione, nel valutare una sua manifestazione concreta
all’interno di una argomentazione discorsiva, l’uso di strumenti
ipertestuali si rivelerebbe vantaggioso; ad esempio, eviterebbe
il rischio di dare l’impressione, fuorviante, che la scelta di un
ordine particolare nel dimostrare A, B e C possa essere rilevante
per la dimostrazione di D.
Si obietterà che l’esempio che abbiamo
fornito riguarda un’argomentazione logica, mentre in filosofia (e
a maggior ragione nella vita di tutti i giorni) abbiamo a che fare
con argomentazioni dalla struttura più fluida, che sarebbe difficile
ingabbiare nella immagine generale che abbiamo fornito. A questa
obiezione sono possibili due risposte, ciascuna delle quali credo
potrebbe bastare, anche da sola, a sostenere le tesi fin qui esposte.
In primo luogo – ci troviamo qui in pieno in quell’ambito di opzioni
interpretative alle quali accennavamo in apertura e che interessano
direttamente il lavoro filosofico – va detto che l’uso di una struttura
ad albero nella rappresentazione del processo argomentativo costituisce
una possibilità molto più potente di quanto si potrebbe a prima
vista pensare; se i lavori di Gentzen hanno reso abituale questa
rappresentazione per la logica del primo ordine, quelli di Dag Prawitz ne hanno allargato l’applicabilità
a argomenti deduttivi in generale, anche non formalizzati; in anni più recenti, un allievo italiano di Prawitz,
Cesare Cozzo, ha ulteriormente sviluppato quest’idea, mostrando
come utilizzarla anche nel caso di argomenti non deduttivi.
In secondo luogo, volendo accettare l’idea
dell’esistenza di argomentazioni non riducibili a una struttura
di questo tipo, a fortiori si dovrebbe riconoscere ad esse
un carattere non lineare.
4. Conclusioni
Per quali motivi Kolb è portato a non
percepire, o a sottovalutare, la non linearità di situazioni di
questo tipo, del tutto abituali nell’argomentare filosofico? Probabilmente,
per due ragioni di un certo rilievo.
In primo luogo, perché nel parlare di
argomentazioni egli ha in realtà in mente non strutture astratte,
ma situazioni concrete e testi filosofici tradizionali, considerati
nella loro ‘materialità’. In questi casi, da un lato siamo abituati
a strumenti (la scrittura lineare) che possono portare a nascondere
certe forme di non-linearità; dall’altro siamo forse sviati da una
concezione un po’ troppo letteraria della filosofia: se qualcuno
ce lo chiede, siamo disposti a riconoscere che un manuale di logica,
o addirittura un testo di matematica, facciano parte della nostra
tradizione filosofica. Ma se pensiamo a un testo di filosofia, esempi
di questo genere non sono probabilmente i primi a venirci in mente,
e se anche ci venissero in mente, l’apparente linearità della loro
forma esteriore potrebbe portarci a sottovalutare il fatto che non
necessariamente questa forma esteriore coincide con le strutture
argomentative che vi trovano espressione. Da questo punto di vista,
il fatto di partire dall’analisi di strutture astratte, di partire,
per così dire, dall’analisi del manuale di logica, ha il vantaggio
di portarci a guardare con un occhio un po’ diverso anche il testo
filosofico ‘tradizionale’, e le argomentazioni che vi sono contenute.
In secondo luogo, perché nel parlare di
ipertesti Kolb intende in realtà riferirsi, pur senza dichiararlo
esplicitamente, a livelli molto elevati di complessità ipertestuale,
a ipertesti fortemente destrutturati. Ma l’idea che un ‘vero’ ipertesto
debba, ad esempio, consentire comunque l’ingresso da uno qualunque
dei suoi nodi, è senz’altro fuorviante: come abbiamo cercato di
argomentare, esistono livelli diversi di complessità ipertestuale,
gradi diversi di non linearità. Quello che interessa, dal punto
di vista dell’applicazione degli ipertesti alla filosofia, è cercare
di capire quali tipi di strutture ipertestuali possano risultare
utili per la riflessione filosofica - e siccome la riflessione filosofica
conosce incarnazioni, tipologie, strutture argomentative ed espositive
profondamente diverse, è del tutto plausibile ritenere che ad esse
possano corrispondere tipi diversi di complessità e di strutturazione
ipertestuale.
Lo stesso Kolb riconosce ed anzi sottolinea
l’interesse di quelle che chiama “forme intermedie” di ipertestualità;
sembra però non accorgersi che alcune di queste forme le ha già
sottomano, proprio nell’analisi di strutture argomentative quali
quella sopra considerata. Naturalmente, forme argomentative diverse
avranno strutture diverse, che possono manifestare gradi diversi
di ipertestualità; e in alcuni casi, avremo anche a che fare con
modelli ipertestuali sorprendentemente complessi, o addirittura
dinamici. Ad esempio, l’operazione di scarico di una premessa all’interno
di una dimostrazione potrebbe configurarsi, volendo realizzare una
rappresentazione ipertestuale e dinamica della dimostrazione stessa,
come una modifica di stato di un nodo dell’ipertesto.
Il compito che si pone allora a chi voglia
indagare più a fondo il rapporto fra ipertesti e filosofia è proprio
quello di cercare di capire quali forme di ipertestualità
possano corrispondere a quali modelli argomentativi, e perché.
Compito evidentemente assai complesso, che non ho alcuna pretesa
di affrontare in questa sede. Compito, però, che mi pare richieda
di liberare il campo da visioni potenzialmente fuorvianti del concetto
di argomentazione (qual è l’idea che una argomentazione sia necessariamente
lineare), e del concetto di ipertesto (qual è l’idea che un ipertesto
corrisponda necessariamente a una operazione di totale destrutturazione
e decostruzione del contenuto informativo). Se queste brevi note
hanno potuto contribuire in qualche misura a tali obiettivi, avranno
raggiunto il loro scopo principale.
Gino
Roncaglia
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