Open
Access e ricerca scientifica: un'opportunità
Idee e spunti dal convegno Institutional archives for research: experiences and projects in Open
Access
Elena Giglia
Biblioteca Centralizzata della Facoltà di
Medicina
Università degli Studi di Torino
«L'Open Access è un'opportunità unica per la
ricerca»: così Valentina Comba, auspicando sinergie inedite fra ricercatori e
bibliotecari nel mutato scenario di un'Università-impresa, dava inizio alla
prima giornata del convegno Institutional
archives for research: experiences and projects in Open Access, tenutosi a
Roma il 30 novembre e il 1 dicembre. Il convegno, ospitato dall'Istituto
Superiore di Sanità, aveva come interlocutori privilegiati i ricercatori di
area biomedica, di cui ha visto una buona partecipazione.
Proprio ai ricercatori, e alle nuove prospettive
aperte dall'Open Access per una nuova comunicazione scientifica era dedicata la
prima sessione del convegno, magistralmente aperta da Jean Claude Guédon (Open Access: better science for scientists
and society) con un brillante excursus
storico sui canali della scholarly
communication dalla nascita delle riviste scientifiche all'era di Internet.
La cifra di lettura proposta da Guédon, la «repubblica delle lettere» già sovversiva quando nacque, nel ‘600, in
epoca monarchica e imperiale, può concretizzarsi, oggi, in una vera e propria
«repubblica del sapere», diffusa, democratica, liberamente accessibile grazie
ai canoni dell'accesso aperto: le due vie – l'autoarchiviazione in archivi
aperti e la pubblicazione di riviste Open Access -, che già l'autore nel suo The “green” and the “gold” road to Open Access: the case for mixing and matching [1], riconosceva come complementari e non alternative,
possono garantire la massima diffusione dell'informazione e quindi la crescita
complessiva della conoscenza. Guédon, sostenendo fortemente il mandato ad archiviare nei depositi
istituzionali, propone nell'attesa di creare “valore simbolico” intorno ai
depositi stessi, per far sì che i depositi (istituzionali o disciplinari)
diventino la nuova misura di valutazione della validità della ricerca: in
questo senso il professore ha anche articolato in modo chiaro una critica alle
correnti forme di peer review e di metrica dell'impatto, e ha chiuso sulla
speranza che da nuove forme di interazione fra ricercatori e specialisti
dell'informazione, con gli strumenti dell'accesso aperto, nascano risposte
inedite alla crisi della comunicazione scientifica.
Derek Law, nel suo
intervento Making science count :
Open Access and its impact on the visibility of science[2], ha
fornito dati concreti sulla maggior consapevolezza delle potenzialità dell'Open
Access in ogni disciplina: dai progetti
in corso (DARE in Olanda, DRIVER a livello Europeo, DEST in Australia), al
numero crescente degli archivi aperti, alle nuove politiche mandatarie rispetto
ai risultati delle ricerche finanziati con fondi pubblici (Wellcome Trust in
Gran Bretagna, National Institute of Health in USA), alle politiche degli
editori tradizionali che sempre più offrono l'opzione “author/institution pays”
per l'accesso aperto sulle riviste dei loro pacchetti editoriali. Se crescono
gli strumenti a disposizione, il problema resta quello di riempire gli archivi:
per questo bisogna puntare sui nuovi studi sulle citazioni, che dimostrano la
maggiore visibilità delle ricerche pubblicate ad accesso aperto, citate prima e
più frequentemente, e sulle nuove
metriche di valutazione più adatte a una realtà complessa come quella di rete.
Law si è poi soffermato sia sulle potenzialità di text mining e data mining offerte
in ambiente Open Access - a patto però che diventi mandatario archiviare la
versione finale dell'autore nel suo formato nativo, e non nel .pdf che è solo
il livello minimo di condivisione - sia sulla visibilità garantita dall'accesso
aperto come vetrina per la produzione scientifica nazionale (progetto Cream of science in Olanda). In questo
senso, in futuro l'archiviazione in depositi istituzionali potrebbe rivestire
un ruolo cruciale non solo nella valutazione della ricerca a livello di Ateneo,
ma anche nei Rapporti nazionali e internazionali sulle istituzioni di ricerca,
in cui la metrica è basata anche sulla quantità di citazioni ottenute dai singoli
enti.
Francis André, dell'INIST-CNRS, ha portato l'esperienza d'oltralpe in Support
of Open Archives at national level : the HAL experience [3]. Dopo una panoramica
sugli ingenti finanziamenti e sulle
politiche di organizzazione della ricerca attuate in Francia (con le nuove
agenzie ANR – Agence Nationale de
Un'altra prestigiosa
esperienza è venuta da Peter Morgan, Capturing research outputs at the University of Cambridge :
experiences with DSpace [4], che
ha presentato i due progetti volti a raccogliere, disseminare e conservare la
produzione scientifica dell'Università di Cambridge. Dopo una rapida
presentazione della realtà dell' Ateneo (evidenziando la separazione fra l'area
delle biblioteche e quella informatica, e la tripartizione del sistema
bibliotecario in University Library, Faculty Libraries e College Libraries), degli
sforzi finora fatti in progetti di digitalizzazione (CEDARS, CAMILEON) e di
diffusione della comunicazione scientifica (SPARC Europe), e della conseguente
credibilità e visibilità acquisita dai servizi bibliotecari presso i
ricercatori, Morgan è passato a tracciare il profilo del progetto “DSpace@Cambridge”:
finanziato dal MIT e da Cambridge Univ. per il triennio 2003-2006, gli scopi
del progetto erano di identificare e rispondere ai bisogni degli utenti, di
creare il deposito istituzionale, e non ultimo di contribuire allo sviluppo del
software DSpace. Mette conto sottolineare le linee guida: autoarchiviazione (di
qualsiasi tipo di materiale) con un set di metadati Dublin Core, poi validato
dallo staff bibliotecario; l'autore
mantiene il copyright, e può quindi fruire del diritto di pubblicazione e riproduzione;
il deposito ha la licenza di fare copie e disseminarle a scopo di studio e
ricerca ma anche di conservazione; per qualcuna delle 17 comunità che lo
richiedono è possibile creare collezioni con particolari restrizioni (work in
progress, materiale commercialmente rilevante…). Il bilancio del progetto è
dunque decisamente positivo (tanto che è stato rifinanziato per un
quinquennio); le statistiche di accesso sono buone e buono è stato sia l'impatto
sulla comunità scientifica sia la visibilità sociale. Spin-off del progetto è
SPECTRa, archivio aperto per la chimica, che consente il deposito di dati
sperimentali (gli Open Data pongono problemi inediti: le policies di embargo, i
criteri per il riuso dei dati…). In chiusura, Morgan ha posto alcune questioni
fondamentali: in primis ha
sottolineato come l'atteggiamento corretto sia di mettersi nell'atteggiamento
di cercare di capire cosa davvero serva ai ricercatori, e costruire insieme
soluzioni adeguate alle loro esigenze (diverse per le diverse comunità
scientifiche, questo non va dimenticato); andare oltre il materiale peer
reviewed; considerare sia archivi aperti sia archivi chiusi (per particolari
esigenze, quali quelle degli Open Data); considerare strutture federate di
deposito; dimostrare quale valore aggiunto può dare alla ricerca e ai
ricercatori un archivio istituzionale.
Il vivace dibattito che
è seguito ha sottolineato proprio la centralità dei ricercatori: Guédon ha
ribadito che gli sviluppi dell'accesso aperto devono essere orientati alle
esigenze degli utenti, sempre nell'ottica della massima disseminazione del
sapere, per rendere visibile la «repubblica del sapere»; Law ha posto l'accento
su “institutional”, sul dare visibilità alle istituzioni, e sulle precise
responsabilità delle istituzioni stesse nella pubblicazione dei risultati: a
questo proposito, a fronte del dubbio su come si possano conciliare la spinta
alla privatizzazione della ricerca e l'Open Access, Guédon ha sottolineato come
l'accesso aperto non sia che un canale alternativo di pubblicazione, che non
cambia la natura del “rendere pubblico” il risultato della ricerca (sia esso
coperto da brevetto o no, ma per questo esistono, come dimostrato da Morgan,
esperienze di archivi misti, con embargo dei dati per un periodo critico). Da
ultimo si è riaffermata la necessità di nuove metriche di valutazione più
aderenti alle nuove forme di
comunicazione scientifica rispetto al tradizionale Impact Factor (“misused”,
secondo Guédon, nella valutazione della ricerca): in questo senso l'accesso
aperto può dare ampie garanzie verso modalità alternative. È di inizio novembre
la notizia che
Il pomeriggio ha visto alternarsi nella seconda
sessione, Open Access in Italy: knowledge
and tools to write and search relazioni più tecniche, ritagliate sulla
specifica realtà italiana.
Maurella Della Seta e Rosanna Cammarano del
Servizio Documentazione dell'Istituto Superiore di Sanità hanno presentato un
interessante studio comparato, Citation tracking of scientific publications through two different
searching tools : Google scholar and Web of science [6], condotto a distanza di un anno su un set di 44 papers: la
sovrapposizione fra i due strumenti si è rivelata solo del 51%. Google Scholar,
nonostante i suoi riconosciuti limiti, ha reperito record unici, mentre Web of
Science si è confermato più completo. In sostanza, i sue strumenti risultano
complementari.
Valentina Comba ha
tracciato un panorama degli attuali metodi di valutazione della ricerca in
Italia e in Europa (e degli sviluppi
auspicati con le nuove agenzie), che non consentono ancora agli autori una
piena autonomia di scelta su dove e come pubblicare. Il suo A toolkit for Research Communities :
helping Authors choose the right mode of publication to maximise impact [7]
costituisce una preziosa checklist di risorse e siti web utili per spiegare i vantaggi
di pubblicare Open Access, una sorta di “Istruzioni agli autori” (e ai
bibliotecari competenti che li devono supportare) per conoscere le riviste ad
accesso aperto (DOAJ), i depositi istituzionali (DOAR/ROAR), le politiche degli
editori sull'autoarchiviazione (ROMEO-SHERPA), gli studi sull'impatto, che
dimostrano l'evidente maggiore disseminazione garantita dall'accesso aperto.
Enrico Alleva e Igor
Branchi, dell'Istituto Superiore di Sanità, hanno evidenziato gli aspetti
innovativi e le criticità dell'Open Access per i ricercatori: Making available scientific information in the third
millennium: perspectives for the neuroscientific community
[8]. Particolare rilievo è stato dato alla possibilità di
pubblicare negli archivi aperti anche i risultati negativi (difficilmente
pubblicabili altrove per le note ragioni commerciali e di interesse, ma di
grande utilità per lo sviluppo della scienza) o i singoli set di dati, parti di
esperimenti che non trovano spazio negli articoli tradizionali, e alla ricerca
di nuove economie sostenibili per l'accesso aperto, perché se è vero che
l'accesso aperto consente a tutti di leggere, non è così scontato che tutti
possano permettersi di pubblicare con la formula “author pays”. Ma, di fondo, è
stato espresso l'auspicio di un graduale, ma sostanziale cambio di direzione
verso l'accesso aperto.
Alessandro Giuliani,
dell'Istituto Superiore di Sanità, nel suo Open
Access as an antidote for the self-referential character of science [9], ha
fornito una suggestiva rilettura in chiave di complessità del carattere
autoreferenziale che sta alla base della moderna ricerca scientifica (e
dell'errore insito nella eccessiva generalizzazione): lo stesso peer review,
che consente solo agli specialisti della materia di giudicare la materia
stessa, crea di fatto una sorta di “ortodossia” che è nemica della reale
innovazione. In quest'ottica, l' Open Access, che di fatto estende la base dei
possibili lettori, può essere un valido antidoto a una scienza divenuta un
circolo chiuso, e può contribuire a ridare visibilità alla scienza e alla
divulgazione delle ricerche.
Franco Toni, del
Servizio di Documentazione dell'Istituto Superiore di Sanità, investigando le Statistics of Open Access Journals
[10], ha presentato gli standards per tracciare le
riviste tradizionali on-line, sottolineando il crescente interesse per le
statistiche in termini di valutazione e selezione delle risorse. Fra gli
editori Open Access solo BioMedCentral fornisce statistiche di accesso e
download. In ambiente OA ciò che conta non è tanto individuare gli IP addresses
di chi scarica i file, ma quante volte i file sono scaricati: ultimamente, DOAJ
offre questa possibilità per un terzo delle riviste a livello di singolo
articolo. In realtà, la mancanza di dati statistici associati alle risorse Open
Access le penalizza: al di là di studi come quello di Gunther Eisenbach, Citation advantage of Open Access articles [11],
che dimostrano in che percentuale le pubblicazioni ad accesso aperto siano più
citate di quelle tradizionali, sarebbe fondamentale per i bibliotecari avere statistiche
di accesso al materiale Open Access, per dimostrarne la validità sia in termini
di valore scientifico sia di reale
possibilità di incidere sui budget sempre più scarsi delle biblioteche,
orientando con precise scelte gli sviluppi delle collezioni.
Sul tema delle risorse tradizionali si è
incentrato il dibattito: da più parti è stato stigmatizzato l'oligopolio che di
fatto caratterizza il mercato editoriale e genera la spirale dei prezzi sempre
più insostenibile, ma anche la criticità del modello “author pays”, non sempre
sostenibile. Valentina Comba ha ribadito la necessità di nuove sinergie anche
nella definizione dei budget, facendo interagire l'area ricerca con l'area
biblioteche, perché sempre più i costi della pubblicazione possono rientrare in
quelli stanziati per le ricerche stesse: la pubblicazione come atto finale
della ricerca. Susanna Mornati ha sottolineato l'importanza di nuovi parametri
di valutazione – l'Impact Factor è una misura puramente quantitativa, e viene
invece usata per valutare la qualità della ricerca -
e la necessità di ottenere consenso da parte dei ricercatori, insieme a una
massa critica di documenti ad accesso aperto, per sensibilizzare anche gli
altri stakeholders. Particolarmente apprezzate in questo senso le iniziative di
alcuni governi (Brasile) che sostengono la scelta dell'accesso aperto.
La seconda giornata ha visto la presentazione di
esperienze concrete di promozione dell'accesso aperto, nella sessione Institutional policies for Open Access.
Roberto Delle Donne, presidente del Gruppo Open
Access della Commissione Biblioteche della CRUI, ha illustrato in Gli Atenei italiani e l'informazione in Open Access [12] le linee
d'azione del gruppo: il rapporto e le forme di collaborazione con altre realtà
europee, il deposito delle tesi di dottorato (problema complesso, che tocca la disciplina
speciale del Dottorato, quella del Diritto d'autore, del Deposito legale, della
Protezione delle invenzioni intellettuali), l'anagrafe e valutazione della
ricerca, la questione delle riviste elettroniche (la nuova modalità proposta è
quella “institution pays”). La conclusione è stata che alle Università italiane
più che la concorrenza gioverebbe la capacità di fare sistema.
Laura Tallandini, riprendendo la storia dell'
Open Access in Italia (dalla Dichiarazione
di Messina [13] alle statistiche attuali sui depositi istituzionali
attivi), ha prospettato la strada verso “Berlin
Paola de Castro ed Elisabetta Poltronieri, del
Servizio Informatico, Documentazione, Biblioteca e Attività editoriali dell'ISS
hanno invece presentato il nuovo deposito
istituzionale dell'Istituto Superiore di Sanità, secondo un progetto del 2005
volto a creare un archivio digitale che aggreghi le pubblicazioni nel settore
biomedico prodotte dalle istituzioni di ricerca in Italia, come illustrato in Defining a policy for the ISS institutional
repository [17]. Le strategie per la promozione sono state sia top-down
(firma della Dichiarazione di Berlino da parte del Presidente dell'ISS), sia
bottom-up (abbonamento a BioMedCentral, questionario interno per valutare al
consapevolezza dello staff rispetto all'accesso aperto, creazione di un gruppo
pilota di ricercatori che pubblichino in accesso aperto – e i cui dati di
citazione (1579 accessi in 4 mesi per un articolo,
A Paola Gargiulo, del CASPUR, è toccato il
compito di illustrare la piattaforma PLEIADI [18] (PLEIADI iniziative: a digital platform for the Italian Open Access
community) [19], a supporto della ricerca, localizzazione, disseminazione
dei contributi ad accesso aperto. Con i suoi servizi personalizzati per gli utenti
(profili, servizi di alert, RSS feed) PLEIADI si propone quale portale per
garantire la maggiore visibilità e impatto alla produzione accademica italiana,
e, fino alla creazione di un analogo progetto in Germania e del progetto
europeo DRIVER [20], finora era il prototipo di questo tipo di strumento.
Il dibattito che è seguito ha preso le mosse dall'appunto
del prof. Fantoni, che proponeva un
sistema di “reward” per gli autori che pubblicano ad accesso aperto, una sorta
di incentivo alla fidelizzazione, che potrebbe essere un alert sul numero di
citazioni ricevute dal singolo articolo. La discussione si è quindi spostata
verso le forme di finanziamento e coordinamento, sulla scorta della nota di Laura
Tallandini che additava gli sforzi compiuti da progetti quali JISC e DARE, che
segneranno la differenza da qui a dieci anni rispetto alla scarsa attenzione
dedicata in Italia a questi temi.
Nell'ultima sessione, “Opportunities and services to develop Open Access”, Antonella De
Robbio ha invece segnato i confini fra Open
Access and copyright [21], tenuto conto dei fini istituzionali degli Atenei
(didattica e ricerca) e della complessità della questione della proprietà
intellettuale della ricerca nelle diverse tipologie di documenti (articoli,
tesi, papers, tesi di dottorato..). Due sono gli attori principali: da una
parte le istituzioni, cui spetta il dovere di stilare politiche e regole chiare
sul diritto d'autore, di vigilare sulla cessione indiscriminata di diritti a terzi,
di definire politiche mandatarie di deposito in accesso aperto, anche per
garantire il riuso a fini didattici e di ricerca del materiale prodotto;
dall'altra gli autori, con una precisa chiamata a ritenere il copyright (molti
dei contratti editoriali che prevedono il trasferimento dei diritti di fatto
poi non offrono nessuna tutela supplementare), a pubblicare con editori che in
qualche modo rispettino il diritto ad autoarchiviare (la directory di SHERPA
indica un 76% di editori che lo consentono), a essere comunque consapevoli
delle pesanti implicazioni culturali, sociali ed economiche delle loro scelte
di pubblicazione. Di grande interesse il lavoro del gruppo di Zwolle [22], che
tenta una mediazione e una corretta riallocazione dei diritti fra sette diversi
stakeholders (autori, università, editori, utenti, biblioteche, finanziatori,
utilità pubblica) e sette punti strategici (usi didattici, riutilizzazioni future, riconoscimento produzioni quali
beni intangibili: diritto morale, questioni economiche e finanziarie, questioni
di accesso, questioni di qualità, questioni amministrative, gestione dei
diritti). Solo sulla base di una corretta identificazione delle parti in gioco
e dei loro interessi sarà possibile fissare accordi e politiche che
garantiscano la capacità di usare, gestire e controllare le opere nel rispetto
reciproco dei diritti di ciascuno. Lo Scholars'
copyright project (nato all'interno di Creative Commons) dovrebbe prevedere
nuove licenze in questo senso.
Antonio Fantoni ha
presentato The digital library at
Sapienza : Università di Roma and the effort for Open Access
[23], sottolineando, contro i timori espressi da alcune comunità, l'importanza
della condivisione dei risultati delle proprie ricerche, nate sulla scia di
ricerche effettuate in precedenza e conosciute attraverso i canali della
comunicazione scientifica.
Paolo Roazzi e Corrado
Di Benedetto del Servizio Informatico dell'ISS hanno mostrato l'implementazione
di DSpace per l'archivio istituzionale dell'ISS.
Adriana Valente ha dato
una lettura sociologica dell'accesso aperto, mentre Maria Rosaria Bacchini ha
portato l'esperienza di FeDOA [24], l'archivio aperto dell'Università di Napoli
Federico II.
Susanna Mornati, leader
del progetto AEPIC, ha presentato infine SURplus,
un nuovo prodotto per la valutazione e rendicontazione della ricerca [25],
attività mandatarie per gli Atenei ma di difficile realizzazione per la
eterogeneità, frammentazione e spesso duplicazione dei dati da raccogliere e
gestire. Interamente basato su software open source, SURplus intende fornire un supporto applicativo per la gestione
integrata delle informazioni relative alle attività e ai prodotti della
ricerca. La sua architettura service-oriented è a moduli integrati, per gestire
il workflow del progetto di ricerca (finanziamenti, contratti, convenzioni, la
gestione dell'iter di presentazione), l'archiviazione dei risultati della
ricerca nell'archivio istituzionale (con generazione dell'archivio della
ricerca, e contemporaneamente esposizione dei metadati e quindi ampia
disseminazione dell'informazione), le statistiche e gli indicatori di
valutazione, e un modulo Gateway di interoperabilità verso l'esterno e verso i
sistemi informativi di Ateneo, garantendo l'integrazione fra sistemi diversi.
Nei due giorni del convegno si sono alternate
relazioni tecniche e suggestioni operative, esperienze concrete e contributi di
ampio respiro teoretico, fornendo un quadro vivace del momento attuale
dell'Open Access in Italia in area biomedica, ma non solo. Sul sito [26] del
convegno si trova l'Abstract book. Gli Atti
verranno pubblicati a cura dell'ISS, mentre i contributi in formato .ppt sono
in fase di archiviazione su E-LIS [27], e una bibliografia
[28] sull'argomento è disponibile sul Servizio Informazioni Biomediche UniTo.
______________________________
Note
[1] Guédon, J.C., The “green” and the “gold”
road to Open Access: the case for mixing and matching, «Serials Review», 2004, 30(4), 315-328, http://eprints.rclis.org/archive/00003039/01/science.pdf
[2] http://eprints.rclis.org/archive/00008051/
[3] http://eprints.rclis.org/archive/00008058/
[4] http://eprints.rclis.org/archive/00008085/
[5] http://www.mesur.org/Home.html
[6] http://eprints.rclis.org/archive/00008271/
[7] http://eprints.rclis.org/archive/00008052/
[8] http://eprints.rclis.org/archive/00008273/
[9] http://eprints.rclis.org/archive/00008358/
[10] http://eprints.rclis.org/archive/00008274/
[11] Eisenbach, G. Citation advantage of Open
Access articles, «PLoS Biology», 2006(4), 5, 157 http://biology.plosjournals.org/perlserv/?request=get-document&doi=10.1371/journal.pbio.0040157
[12] http://eprints.rclis.org/archive/00008357/
[13] http://www.crui.it/link/?ID=1811
[14] http://oa.mpg.de/openaccess-padua/index.html
[15] http://eprints.rclis.org/archive/00008372/
[16] http://oa.mpg.de/openaccess-berlin/roadmap.html
[17] http://eprints.rclis.org/archive/00008360/
[18] http://www.openarchives.it/pleiadi/
[19] http://eprints.rclis.org/archive/00008359/
[20] http://www.driver-repository.eu/index.php
[21] http://eprints.rclis.org/archive/00008268/
[22] http://copyright.surf.nl/copyright/
[23] http://eprints.rclis.org/archive/00008063/
[24] http://eprints.rclis.org/archive/00008276/
[25] http://eprints.rclis.org/archive/00008371/
[26] http://www.iss.it/publ/even/cont.php?id=1972&lang=1&tipo=16
[28] http://hal9000.cisi.unito.it/wf/BIBLIOTECH/Portale-bi/Open-Access/Bibliograf/index.htm