Bollettino telematico di filosofia politica

Online Journal of Political Philosophy

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Annotazione della curatrice

Sommario

Il dibattito sulla ristampa
Un conservatore illuminato
Le opere d'arte
Diritti reali e diritti personali
I diritti degli "scrilettori"
I diritti del pubblico
Il problema dell'esclusiva
Appendice: traduzione e commento di Metafisica dei costumi, Dottrina del diritto § 31, II: Che cos'è un libro?

Il dibattito sulla ristampa

Secondo una vulgata assai persistente esiste una correlazione meccanica tra il monopolio del diritto di riprodurre i testi detto diritto d'autore o copyright, 110 l'invenzione della stampa e la nascita dal capitalismo. Questa vulgata presuppone che il concetto di proprietà intellettuale, su cui si fonda tale monopolio, sia sempre stato indiscutibile e che fosse semplicemente in attesa della tecnologia appropriata per poter diventare economicamente sfruttabile.

In realtà, il concetto di proprietà venne stabilmente in contatto col mondo delle idee solo a partire dal XVIII secolo. I poeti antichi legittimavano se stessi non come creatori, ma come ripetitori di quello che le Muse cantavano. 111 Confucio diceva «Io trasmetto ma non invento nulla; rispetto gli antichi e ho fede in loro». 112 Nell'Europa medioevale si diceva: Scientia donum Dei est, unde vendi non potest. 113 Prima del XVIII secolo era ovvio che il sapere fosse quello che gli economisti chiamano un bene pubblico, non escludibile e non rivale. 114

Sul piano giuridico, il diritto romano - che fu il diritto comune dell'Europa continentale fino all'epoca delle codificazioni - considerava oggetto di proprietà solo le cose materiali, cioè le res quae tangi possunt 115 o cose che possono essere toccate. Che senso avrebbe avuto porre barriere proprietarie a entità che ciascuno può usare senza che nessuno sia privato di nulla?

Queste convinzioni, tuttavia, non erano affatto connesse alla libertà della stampa. Nella prima modernità la stampa fu infatti assoggettata ad autorizzazioni esclusive conferite dal potere politico, dette privilegi. Il privilegio aveva a oggetto non tanto una proprietà intellettuale, allora inconcepibile, quanto le azioni della stampa e del commercio librario. Il suo scopo era la regolamentazione e il controllo di queste pericolose attività. Si trattava, in altri termini, di una forma di supervisione politica sulla produzione e sulla diffusione di testi a stampa talmente contigua alla censura da esserne indistinguibile. Questa restrizione, peraltro, era gradita agli editori perché il privilegio offriva loro un lucroso monopolio economico. 116

Nel 1710 il parlamento britannico aveva rotto il regime del privilegio approvando la prima legge europea sul copyright, lo Statute of Anne. Per la prima volta, l'autore, in luogo dello stampatore, fu riconosciuto come titolare originario del monopolio sulla riproduzione del proprio lavoro. Questo monopolio, però, non era più perpetuo, come il privilegio, bensì temporaneo: il termine era di 21 anni per le opere già pubblicate al momento dell'entrata in vigore dello statuto e, per tutte le opere uscite dopo, di 14 - raddoppiabili solo con un atto esplicito di volontà dell'autore.

Lo statuto britannico ricevette una interpretazione definitiva solo sessantaquattro anni più tardi. Scaduti i termini fissati dallo statuto, i librai scozzesi avevano cominciato a ristampare i testi editi dai librai inglesi per rivenderli a prezzi inferiori. I librai inglesi avevano reagito trascinandoli in tribunale: secondo loro, al di sotto della legge statutaria, il copyright doveva essere inteso come una forma di proprietà di common law, non temporanea, bensì perpetua. I tribunali scozzesi, che applicavano il diritto romano, rigettavano questa pretesa: la proprietà è un diritto su una cosa (ius in re) - una res che, nel caso del copyright, non si può riconoscere come tale, perché immateriale. I tribunali inglesi, di contro, davano ragione ai librai inglesi.

Dal momento che i tribunali inglesi e quelli scozzesi deliberavano in modo diverso, in Inghilterra il copyright veniva trattato come perpetuo mentre in Scozia era considerato temporaneo, secondo i termini dello Statute of Anne. Soltanto con il caso Donaldson v. Beckett (1774) si arrivò a una pronuncia valida per tutti da parte del tribunale di ultima istanza del Regno Unito, la camera dei Lord, che diede ragione agli scozzesi, sancendo la nascita del pubblico dominio, Dal momento che, per la natura dell'oggetto, non si poteva pensare la proprietà letteraria come una proprietà di common law, dovevano valere esclusivamente i termini stabiliti dallo Statute of Anne. Con le parole di Lord Camden: «la scienza e l'istruzione sono per loro natura publici iuris e dovrebbero essere tanto libere e universali quanto l'aria e l'acqua»; «La conoscenza non ha valore o utilità per il possessore solitario: per essere goduta deve essere comunicata». 117

Nel frattempo, nell'Europa continentale persisteva il regime del privilegio. Per avere una normativa sul diritto d'autore paragonabile a quella britannica si dovettero attendere la Rivoluzione francese e le leggi Le Chapelier (1791) e Lakanal (1793). Questo ritardo permise agli illuministi del continente di affrontare la questione della cosiddetta proprietà intellettuale in maniera filosoficamente approfondita e di arricchirla con un nuovo ingrediente: i cosiddetti diritti morali dell'autore. 118

Anche negli stati tedeschi, il XVIII secolo vide una fioritura senza precedenti del commercio librario: i limiti territoriali del privilegio, combinati con la frammentazione politica della Germania produssero una grande quantità di ristampe non autorizzate. Il dibattito sulla proprietà intellettuale fu dunque molto vivace e arricchito dalla partecipazione di figure di primo piano, come Lessing, Klopstock, Fichte e lo stesso Kant. 119 Una forte tradizione romanistica militava contro l'idea di una proprietà intellettuale che insiste su un oggetto immateriale. 120 Nella seconda metà del '700, però, personalità come Lessing cominciarono a sostenere - sia contro la teoria luterana del talento come dono di Dio, 121 sia contro il regime del privilegio, che dava il monopolio della stampa e dei suoi proventi agli editori - il diritto dell'autore a essere remunerato per la sua opera, in quanto prodotto del suo proprio lavoro. 122

Un conservatore illuminato

Il saggio kantiano del 1785 sulla ristampa è talvolta trascurato dagli studiosi in quanto ritenuto di interesse prevalente per gli storici della proprietà intellettuale, i quali tendono a vederlo come un gradino entro un processo evolutivo il cui termine è già noto. 123 Il suo tema, tuttavia, non è affatto marginale: nell'articolo sull'Illuminismo, per quanto il libro sia trattato come un esempio di sapere istituzionalizzato che ci trattiene nella minorità, l'uso pubblico della ragione è quello che ciascuno fa come studioso davanti a un pubblico di lettori. Gli illuministi tedeschi si interrogavano sulla legittimità della ristampa - pratica che, nel regime del privilegio, non era illegale al di là dei confini dello stato che l'aveva concesso - perché erano variamente interessati all'autonomia economica degli autori e alle modalità di disseminazione del sapere. Il lettore di Kant può aggiungere a questi interrogativi una questione ulteriore: come può la mediazione editoriale conciliarsi con la libertà dell'uso pubblico della ragione?

Questa chiave interpretativa può essere correttamente usata perché Kant non è un teorico della proprietà intellettuale: l'uso pubblico della ragione può dunque essere letto come qualcosa che travalica i diritti - e i monopoli - economici.

La proposta di Kant, come viene detto esplicitamente nella conclusione del saggio del 1785, vuole rimanere entro i limiti tracciati dalla tradizione romanistica: non si vuole, cioè, introdurre un nuovo e inusitato diritto di proprietà su un oggetto immateriale.

Se l'idea di una edizione di libri in generale qui posta a fondamento fosse ben compresa ed elaborata con l'eleganza richiesta dalla giurisprudenza romana (come mi lusingo sia possibile), la querela contro il ristampatore potrebbe ben essere portata davanti ai tribunali senza la necessità di sollecitare preliminarmente una nuova legge a questo scopo.(087)

Per Kant non è possibile costruire un diritto di proprietà intellettuale in nome di una pretesa proprietà dell'autore sui suoi pensieri (079), perché la ristampa non li sottrae all'autore. Le idee, entità immateriali, sono infatti indefinitamente condivisibili senza che chi le ha pensate per primo sia privato della loro paternità storica e della facoltà di continuare a concepirle e ad applicarle.

Quanto ai libri, se li intendiamo come oggetti materiali, dobbiamo anche riconoscere che la loro proprietà passa interamente a chi li compra. Sarebbe difficile, infatti, che qualcuno fosse disposto ad acquistare un libro con il vincolo esplicito - e vessatorio - di dover rispondere della sua eventuale ristampa. A maggior ragione è anche insostenibile che una simile obbligazione possa essere accettata tacitamente (079).

Le opere d'arte

La distanza di Kant dai teorici della proprietà intellettuale si misura chiaramente dalle sue tesi sulle opere d'arte, le quali, una volta che se ne è venuti legittimamente in possesso, possono essere liberamente riprodotti e le loro copie possono essere altrettanto liberamente regalate o vendute (085-86).

Le opere d'arte sono oggetti che esauriscono il loro senso in se stessi e non hanno bisogno di essere ricollegate alle persone, come loro azioni: per questo possono essere trattate come entità materiali sottoponibili, senza riserve, a diritti reali, sia dalla parte del venditore, sia da quella dell'acquirente.

La proprietà kantiana si applica solo agli oggetti materiali, e milita sistematicamente a favore della libertà di copia. Se qualcosa diventa mio, io ho il diritto di farne quello che voglio. In un ambiente kantiano, quello che oggi sarebbe bollato come pirateria rientrerebbe fra i diritti dell'acquirente: perché la proprietà di un produttore discografico o cinematografico dovrebbe prevalere sulla proprietà del consumatore che ha acquistato qualcosa da lui?

Diritti reali e diritti personali

Nella prospettiva kantiana, l'illegittimità della ristampa non può essere argomentata in modo convincente se viene fondata su una teoria della proprietà intellettuale che estenda il modello dei diritti reali, o diritti sulle cose, al mondo delle idee. Per l'aspetto immateriale dell'opera dell'ingegno, una tutela proprietaria è insensata in quanto i pensieri non possono essere sottratti; per quello materiale la proprietà privata, presa sul serio, dà a chi la acquista tutti i diritti su una cosa, compreso quello di copiarla e di distribuirne le copie come preferisce.

Preclusa la strada dei diritti reali, Kant adotta una strategie differente, basata sui diritti personali. Kant intende i diritti personali, secondo la tradizione, come diritti a ottenere prestazioni da persone: «il possesso dell'arbitrio di un altro, come facoltà di determinarlo, attraverso il mio arbitrio, a una certa prestazione secondo leggi di libertà, (il mio e il tuo esterni in considerazione della causalità di un altro)» 124 Questi diritti non possono mai sorgere originariamente o unilateralmente, ma, in quanto insistono su relazioni fra esseri liberi, possono derivare esclusivamente da impegni bilaterali espliciti.

Che cos'è un libro? Per Kant non è solo un oggetto materiale, o una raccolta di pensieri, ma è anche un'azione: un discorso che un autore fa al pubblico (080-081), costruendo un rapporto di cui risponde in modo personale - proprio come è personale il processo collettivo del rischiaramento tramite l'uso pubblico della ragione. L'editore, che offre all'autore lo strumento per raggiungere il pubblico, è un agente che parla in nome dell'autore, su suo mandato, instaurando un rapporto con la collettività le cui responsabilità ricadono sullo scrittore. Il ristampatore, dal canto suo, è un mandatario senza mandato: qualcuno che pretende di impegnare l'autore con il pubblico senza avere la sua autorizzazione (081). L'illegittimità della ristampa, quindi, non consiste nel "rubare" metaforicamente qualcosa a qualcuno, come vorrebbero i teorici della proprietà intellettuale. 125

Kant qui dice “mio” in un senso diverso sia dal “mio” della proprietà delle cose tangibili sia dal “mio” della tipicità individuale: si tratta del “mio” dell'imputazione. Se io parlo, compio un'azione che è mia nel senso che è imputabile a me. Se qualcun altro parla in mio nome, anche recitando la mia lista della spesa, 126 ma senza che io l'abbia autorizzato, commette la stessa illegittimità di cui si macchia il ristampatore: mi fa entrare in un rapporto a cui non ho dato il mio assenso.

Il possesso legittimo di una cosa dà titolo a riprodurla senza l'assenso di chi l'ha fatta. Il possesso legittimo di un libro, di contro, non dà titolo a ristamparlo senza l'autorizzazione di chi lo ha scritto: dal possesso di una cosa, spiega Kant (083-84), non può seguire un «diritto affermativo personale», cioè il titolo a pretendere da un agente non una semplice astensione, 127 bensì un'azione. Una simile pretesa, insistendo su un agente libero, è legittima solo se questi si è esplicitamente obbligato con un contratto. L'impegno di una persona non può quindi seguire dal mero possesso di una cosa: voler ristampare un libro di cui si possiede legittimamente una copia sarebbe come pretendere di sposare una donna solo perché si è acquistato il suo anello nuziale.

I diritti degli "scrilettori"

Il ristampatore viola il diritto dell'autore non perché riproduce il testo, ma perché parla al pubblico in nome dell'autore senza esserne autorizzato. Il divieto di ristampa, perciò, non può valere per le riproduzioni a uso personale di testi legittimamente acquisiti, che non vengono distribuite al pubblico. Il diritto d'autore di Kant infatti non riposa sulla proprietà intellettuale, ma sul diritto di ciascuno a controllare con la propria delega chiunque abbia la pretesa di agire a nome suo. Tutto ciò che non comporta un'azione abusiva in nome dell'autore rimane libero.

Nell'Annotazione generale del saggio del 1785 (086) Kant afferma che le elaborazioni creative, come le traduzioni e i compendi, sono da considerarsi come discorsi di chi le ha composte. Non richiedono pertanto l'autorizzazione degli autori delle opere da cui sono derivate, anche qualora comunichino le medesime idee: i pensieri, in quanto entità immateriali, possono essere infatti indefinitamente condivisi.

Wreader, "scrilettore", 128 è un neologismo creato dai teorici dell'ipertesto per parlare di un lettore che è nello stesso tempo scrittore, perché partecipa alla composizione del testo. Uno scritto rinchiuso nel recinto della proprietà intellettuale non si presta all'attività di un lettore-scrittore, perché ogni opera derivativa, a cominciare dalla traduzione, costituisce una violazione del diritto dell'autore. Kant, però, che concepisce il testo come un discorso, si sottrae a questo rischio, lasciando liberi tutti gli usi personali e rielaborativi. All'autore rimana la facoltà di decidere se e come pubblicare il suo testo: ma le componenti essenziali dell'uso pubblico della ragione - l'istruzione personale, l'esercizio della critica, la reinterpretazione creativa e la diffusione delle idee - rimangono completamente libere.

I diritti del pubblico

Kant non solo contempera l'esigenza di autodeterminazione degli autori e la libertà di circolazione delle idee rimanendo fedele alla tradizione romanistica, ma aggiunge, nel rapporto fra l'autore e l'editore, il pubblico.

Per Kant il rapporto fra autore ed editore non è una relazione a due, fra un proprietario e il suo usufruttuario. L'editore funge da mediatore fra l'autore e il pubblico: i suoi interessi meritano di essere legalmente riconosciuti e tutelati solo perché e se il loro rispetto agevola la diffusione del suo testo. Quando essi ostacolano la circolazione dei testi, prevale l'interesse del pubblico ad accedere agli scritti.

Che l'editore conduca il suo negozio di editore non meramente a suo proprio nome ma a nome di un altro (cioè lo scrittore)[085] e che non lo possa fare senza la sua autorizzazione, è comprovato da certe obbligazioni, che, per riconoscimento generale, sono annesse all'editore. Se lo scrittore fosse morto dopo che ha consegnato il suo manoscritto all'editore per la stampa e questi vi si è reso obbligato, quest'ultimo non è libero di trattenere il manoscritto come sua proprietà, ma il pubblico ha, in mancanza di eredi, il diritto di costringerlo all'edizione o a cedere il manoscritto a un altro che offra di pubblicarlo. Prima, infatti, era un negozio che l'autore voleva svolgere con il pubblico per suo tramite, per il quale egli si offriva come conduttore di negozi. Il pubblico non era neppure in bisogno di conoscere questa promessa dello scrittore, né di accettarla; ottiene questo diritto sull'editore (di fornire qualcosa) esclusivamente per legge. Perché l'editore possiede il manoscritto solo alla condizione di usarlo per un negozio dell'autore con il pubblico; questa obbligazione nei confronti del pubblico rimane, anche se quella nei confronti dell'autore è cessata con la sua morte. Qui non viene posto a fondamento un diritto del pubblico al manoscritto, bensì al negozio con l'autore. Se l'editore, dopo la sua morte, facesse uscire l'opera dell'autore mutilata o falsificata, o facesse mancare copie in numero occorrente alla domanda, allora il pubblico avrebbe la facoltà di costringerlo a una maggiore correttezza o a un aumento della tiratura, e altrimenti di procurarsela altrove. Tutto questo non potrebbe aver luogo se il diritto dell'editore non fosse derivato da un negozio che egli conduce fra il pubblico e l'autore, in nome di quest'ultimo.(084-85, corsivi aggiunti)

Kant riconosce il diritto del pubblico, a cui il discorso dell'autore è indirizzato, ad accedere ai testi, una volta che l'autore abbia scelto di renderli pubblici. Egli può permettersi di fare questo proprio perché per lui il diritto dell'autore non nasce da una proprietà 129 il cui usufrutto può essere trasmesso all'editore senza riguardo per gli interessi dei terzi, bensì di un'azione comunicativa, che si perfeziona solo quando l'autore riesce a parlare col pubblico. L'editore ha dei diritti solo se e quando facilita la comunicazione fra l'autore e il pubblico, cioè solo se s quando facilita l'uso pubblico della ragione. A rigore, infatti, l'editore, in quanto opera per una azienda e su incarico dell'autore, fa un uso soltanto privato della ragione. Se Kant si fosse piegato alla proprietà intellettuale, avrebbe assoggettato la libertà dell'uso pubblico della ragione alla censura economica e alla possibilità di manipolazione culturale e politica intrinseca nel dispositivo dei mezzi di comunicazione di massa in cui un emittente attivo distribuisce informazioni a recettori passivi, i quali non possono interagire se non attraverso la sua mediazione centralizzata. 130

La versione kantiana del diritto d'autore - proprio perché non si fonda su una teoria della proprietà intellettuale - contiene dunque organicamente, senza sacrificare la libertà dell'autore, lo spazio per la libertà della parola e della cultura, dell'istruzione e della rielaborazione personale.

Il problema dell'esclusiva

Nel saggio del 1785, Kant sembra teorizzare il carattere esclusivo dell'autorizzazione dell'autore all'editore:

...è chiaro che, dal momento che ognuno dei due – il primo editore e chi in seguito si arroga l'edizione (il ristampatore) – condurrebbe il negozio dell'autore con un unico e medesimo pubblico nella sua interezza (ganz), l'elaborazione dell'uno dovrebbe rendere quella dell'altro inutile e dannosa per ciascuno di loro; quindi è impossibile un contratto dell'autore con un editore con la riserva di poter permettere ancora a qualcun altro all'infuori di lui, l'edizione della sua opera. (081)

Il diritto dell'autore, per Kant, si fonda sulla sua libertà di scegliere se e come impegnarsi in un discorso con pubblico. Da questo punto di vista, nulla impedirebbe, in linea di principio, che un autore desse mandato di parlare in suo nome non a un solo editore, bensì a una molteplicità, anche indefinita, come fa oggi chiunque scelga di sottoporre la propria opera a licenze libere. Secondo il Kant del 1785 più editori che stampassero un medesimo testo si ostacolerebbero a vicenda. Questo, in effetti, era vero allo stato della tecnologia dell'epoca: la stampa era un'intrapresa difficile, rischiosa e costosa, che richiedeva una organizzazione industriale specializzata e un alto investimento di capitale. Non è più vero oggi: pubblicare in rete ha un costo marginale pressoché nullo, una volta che si è ottenuto l'accesso a un server: se l'autore vuole raggiungere un pubblico più vasto, ha tutto l'interesse ad autorizzare a riprodurre il suo testo il maggior numero possibile di persone - per esempio adottando una licenza Creative Commons.

Lo stesso Kant si deve essere reso conto che l'esclusività del mandato non era fondabile a priori, ma dipendeva da una contaminazione empirica, tanto che nella Metafisica dei costumi, 131 del 1797, l'argomento contenuto nel saggio del 1785 è riproposto nella sua interezza, con la sola eccezione del mandato esclusivo, che viene lasciato cadere.

Kant era un uomo dell'età della stampa, nella quale non era ancora tecnologicamente possibile superare la mediazione editoriale. La sua soluzione cerca di limitare i diritti degli editori subordinandoli alla volontà dell'autore e alle richieste della collettività. L'uso pubblico della ragione si trova a dipendere da una mediazione editoriale privata: questa condizione, però è destinata a variare se le tecnologie della comunicazione propongono strumenti che permettono allo studioso di rivolgersi al pubblico direttamente e interattivamente. Il fatto di non aver abbracciato la tesi della proprietà intellettuale 132 permette alla teoria kantiana di illuminare altri rischiaramenti possibili.

Appendice: traduzione e commento di Metafisica dei costumi, Dottrina del diritto § 31, II: Che cos'è un libro?

[289] Un libro è uno scritto (se tracciato con la penna o con caratteri tipografici, su pochi o molti fogli, è qui indifferente) il quale rappresenta un discorso che qualcuno tiene al pubblico tramite segni linguistici visibili. - Chi gli parla a suo proprio nome si chiama scrittore (autor). Chi parla pubblicamente in nome di un altro (l'autore) tramite uno scritto è l'editore. Questi, se lo fa col suo permesso, è l'editore legittimo, ma se lo fa senza è l'editore illegittimo, cioè il ristampatore.

Il complesso di tutte le copie dello scritto d'origine (esemplari) è l'edizione.

La ristampa dei libri è di diritto vietata

Uno scritto non è immediatamente indicazione di un concetto (per esempio al modo di un'incisione su rame o di un calco di gesso, che come ritratto o come busto rappresentano una persona determinata)[290], bensì un discorso al pubblico, cioè lo scrittore parla pubblicamente tramite l'editore. Ma questo, vale a dire l'editore, non parla (tramite il suo tecnico, operarius, lo stampatore) in proprio nome (perché si farebbe passare altrimenti per l'autore) bensì nel nome dello scrittore, cosa a cui è autorizzato solo da una procura (mandatum) che gli è stata concessa. - Ora, il ristampatore parla certo in nome dello scrittore anche con la sua edizione di propria iniziativa, ma senza averne procura (gerit se mandatarium absque mandato); 133 di conseguenza, egli commette, nei confronti dell'editore designato dall'autore (quindi l'unico legittimo), un crimine di sottrazione dell'utile che questi poteva e voleva trarre dall'uso del suo diritto (furtum usus); dunque la ristampa dei libri è vietata di diritto.

La causa della apparenza giuridica di una ingiustizia tuttavia tanto evidente a prima vista, com'è la ristampa dei libri, sta nel fatto che il libro è da una parte un artefatto corporeo (opus mechanicum), che può essere copiato (da chi si trova in legittimo possesso di un suo esemplare) e quindi su di esso ha luogo un diritto reale; ma d'altra parte il libro è anche un mero discorso dell'editore al pubblico, che questi non può ripetere pubblicamente (praestatio operae), un diritto personale, 134 e l'errore consiste nel confonderli l'uno con l'altro.

La confusione del diritto reale col diritto personale è materia di controversie ancora in un altro caso, che appartiene al contratto di locazione/somministrazione (B.II.α), 135 vale a dire quello della locazione (ius incolatus). 136 - Si chiede cioè: il proprietario, se vende a un altro, prima della scadenza del tempo stabilito, la casa (o il suo terreno) affittata a qualcuno, è obbligato ad aggiungere al contratto di vendita la condizione della prosecuzione dell'affitto, oppure si può dire: l'acquisto interrompe l'affitto (però entro un termine di disdetta determinato dall'uso)? Nel primo caso la casa avrebbe effettivamente su di sé un peso (onus), un diritto a questa cosa, [291] che l'inquilino si sarebbe acquistato su di essa (la casa); cosa che può certo anche accadere (per esempio tramite la registrazione del contratto d'affitto sulla casa); ma allora non sarebbe un mero contratto d'affitto, bensì ad esso si dovrebbe aggiungere un contratto ulteriore (su cui molti locatori non sarebbero d'accordo), Dunque vale il principio: “L'acquisto interrompe l'affitto”, cioè il pieno diritto su una cosa (la proprietà) prevale su ogni diritto personale che non possa coesistere con esso; nella qual occasione rimane però aperta all'inquilino, sulla base del diritto personale, l'azione giudiziaria per tenersi esente dal danno derivante dalla rottura del contratto.

Commento della curatrice

Tradurre il persönliches Recht di Kant con «diritto della personalità» anziché con «diritto personale» - specie se al fine di invocare una copertura kantiana alla tesi secondo la quale chi frequenta thepiratebay.org viola i più sacri diritti dell'umanità e mette a rischio la stessa civiltà occidentale - è particolarmente inesatto e fuorviante. 137

Per diritti della personalità oggi i giuristi intendono una serie di diritti assoluti (riconosciuti al soggetto nei confronti di tutti) a tutela della persona umana, che si considerano spettanti all'uomo in quanto uomo, come il diritto alla vita, all'integrità fisica, al nome, all'onore,alla salute, alla libertà personale, all'espressione e così via, indipendentemente dallo stato in cui ciascuno si trova a vivere. 138

Kant, di contro, recepisce la tradizionale distinzione fra i diritti reali che sono diritti sulle cose, e i diritti personali, che, ben lungi dall'essere i diritti della personalità, sono invece diritti a ottenere prestazioni da persone. «il possesso dell'arbitrio di un altro, come facoltà di determinarlo, attraverso il mio arbitrio, a una certa prestazione secondo leggi di libertà, (il mio e il tuo esterni in considerazione della causalità di un altro)» (MdS §18). Come già visto, questi diritti non possono mai sorgere originariamente o unilateralmente, ma, in quanto insistono su relazione fra esseri liberi, possono derivare esclusivamente da espliciti impegni bilaterali.

Kant sostiene che nel caso del contratto d'affitto insorgono controversie a causa di una non rigorosa distinzione fra diritto reale e diritto personale: il contratto d'affitto è un contratto personale fra il locatore e il locatario per il quale il primo si impegna a lasciar godere al secondo la sua casa in cambio di un corrispettivo, e non un trasferimento di diritti reali sulla casa stessa.

Quando la casa viene venduta, il diritto reale su di essa passa nella sua interezza al nuovo proprietario, che non ha preso, a differenza del vecchio, nessun impegno personale con l'affittuario. Per questo l'acquisto interrompe l'affitto. Naturalmente, la vendita della casa comporta che il precedente proprietario non sia più in grado di rispettare il patto con il suo inquilino; questi, dunque, può agire in giudizio per ottenere il pagamento dei danni a causa della rescissione del contratto.

Secondo Kant, l'unico modo per trasformare l'affitto in una cessione di diritti reali sarebbe quello di apporre al contratto una clausola che sancisce il diritto dell'inquilino all'usufrutto della casa fino alla scadenza del contratto stesso: non possiamo escludere questa possibilità, anche se è difficile che un locatore accetti di buon grado un contratto per lui più gravoso.

Anche nel caso del libro entrano in gioco due tipi di diritti: i diritti reali sul libro come artefatto materiale, e quelli personali sul libro come scritto che rappresenta un discorso.

Se considero il libro sotto il primo aspetto, come oggetto materiale, la ristampa senza autorizzazione da parte dell'autore deve essere legittima: quando sono divenuto proprietario di un oggetto fisico, posso farne quello che voglio – perfino copiarlo. Sotto il secondo aspetto, invece, può parlare a nome mio soltanto chi ha la mia autorizzazione: il ristampatore, cioè chi diffonde al pubblico il mio discorso senza avere il mio mandato, non viola dunque un mio diritto reale, non mi priva di una cosa che è mia; prende semplicemente la parola a mio nome senza che io glielo abbia concesso.

È quindi evidente, anche in questo testo tardo, che Kant non può essere interpretato né come un precursore, né come un fautore del concetto di proprietà intellettuale: il ristampatore non si impadronisce abusivamente di una cosa mia – non può cioè essere assimilato a un ladro – bensì si arroga il diritto di rivolgersi al pubblico a mio nome senza avermi prima consultato. Come già visto, un regime kantiano del diritto d'autore non considererebbe illecita la riproduzione di un oggetto qualsivoglia, ma esclusivamente la distribuzione non autorizzata di un testo al pubblico.

La novità del 1797 rispetto al 1784 non è un'aggiunta, bensì una mancanza: Kant non menziona più il requisito dell'esclusiva. Se l'autore ha il diritto di stabilire se e come rendere pubblico il suo discorso, nulla vieta, formalmente, che questi autorizzi più di un portavoce. Nell'età della stampa questa scelta avrebbe reso - pragmaticamente - difficile trovare un editore. Ma entro un dispositivo tecnologico in cui chiunque può riprodurre e distribuire un testo a poco prezzo, un autore potrebbe decidere di eleggere a proprio portavoce l'intero pubblico dei lettori, mettendo fine a una strozzatura monopolistica che non aiuta, ma complica il processo del rischiaramento.



[110] Per quanto il copyright e il diritto d'autore siano solitamente usati alla stregua di sinonimi, e risalgano entrambi all'Europa del XVIII secolo, i due termini non sono storicamente intercambiabili. Il copyright, tipico dei paesi di common law, insiste sugli aspetti economici; il diritto d'autore, tipico dei paesi di civil law, si fonda invece sui diritti morali connessi alla persona dell'autore in quanto creatore di un'opera dell'ingegno.

[111] Si veda per esempio l'incipit della Teogonia di Esiodo.

[112] Analecta,7.1

[113] "La scienza è un dono di Dio e perciò non può essere venduta" (G. Post, «The Medieval Heritage of a Humanistic Ideal: “Scientia donum Dei est, unde non vendi potest”», Traditio, 11, 1955, p. 195-234). Sulla tradizione premoderna si veda C. Hesse, «The rise of intellectual property, 700 b.c.–a.d. 2000: an idea in the balance», Daedalus, (Spring), 2002.

[114] Un bene è non escludibile quando è difficile o impossibile impedirne la fruizione ad altri; è non rivale quando l'uso del bene da parte di alcuni non impedisce agli altri di trarne ugualmente profitto.

[115] G. Grosso, Corso di diritto romano. Le cose, Rivista di Diritto Romano, I, 2001, p. 5.

[116] Mark Rose, Authors and Owners. The Invention of Copyright, Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1993, pp. 10-30.

[117] Sulla vicenda si veda M. Rose, Authors and Owners. The Invention of Copyright cit., nonché dello stesso autore «Nine-Tenths of the Law: The English Copyright Debates and the Rhetoric of the Public Domain», Law & Contemporary Problems 75 (Winter-Spring 2003), pp. 75-87, http://www.law.duke.edu/journals/lcp/articles/lcp66dWinterSpring2003p75.htm. La citazione di Camden viene da W. Cobbett, XVII The Parliamentary History of England col. 999 (London, Bragshaw 1813).

[118] Si vedano per esempio i diritti morali d'autore riconosciuti da una normativa tipicamente continentale come quella italiana in G. Prosperi, I diritti morali dell'autore.

[119] I testi più significativi di questo dibattito sono raccolti nell'archivio "Giuliano Marini" a questo indirizzo: http://archiviomarini.sp.unipi.it/view/subjects/094.html

[120] Per esempio, una perizia della facoltà giuridica di Lipsia del 1665 affermava che, sulla base della dottrina romanistica della proprietà, l'editore ha solo il diritto reale sul manoscritto, quando lo acquista. Secondo la facoltà giuridica di Jena, nel 1722, dalla circostanza che un libro è stato fatto da un autore e rimane legato a lui anche dopo la sua morte non si può inferire che gli esemplari, una volta stampati, appartengano all'autore o al suo concessionario, o che uno dei due abbia uno jus proihibendi sulla ristampa (J.A. McCarthy, «Literatur als Eigentum: Urheberrechtliche Aspekte der Buchhandelsrevolution», MLN, 104(3), 1989, pp. 531-547).

[121] M. Lutero, Monito agli stampatori (Wittenberg, 1541), Bollettino telematico di filosofia politica, http://bfp.sp.unipi.it/classici/lutero.html.

[122] G.E. Lessing, Leben und leben lassen. Ein Projekt für Schriftsteller und Buchhändler. La mia traduzione italiana è disponibile presso il Bollettino telematico di filosofia politica.

[123] M. Borghi, «Writing Practices in the Privilege - and Intellectual Property - Systems», Social Science Research Network Working Paper Series, 2003, http://papers.ssrn.com/sol3/Delivery.cfm/SSRN_ID1031639_code880933.pdf?abstractid=1031639&mirid=1.

[124] I. Kant, Metafisica dei costumi, §18. I diritti personali di Kant non equivalgono affatto ai "diritti della personalità" come li intendono oggi i giuristi, e cioè dei diritti assoluti (riconosciuti al soggetto nei confronti di tutti) a tutela della persona umana, che si considerano spettanti all'uomo in quanto uomo, come il diritto alla vita, all'integrità fisica, al nome, all'onore, alla salute, alla libertà personale, all'espressione e così via, indipendentemente dallo stato in cui ciascuno si trova a vivere.

[125] Su questo tema, vale la pena citare interamente quanto scrive su Kant lo storico dell'editoria Adrian Johns (Piracy, Chicago, The University of Chicago Press, 2009, p. 55, trad. mia), collegando il saggio sulla ristampa a quello di poco anteriore sull'Illuminismo: «La questione che Kant affrontava ora derivava direttamente dalla sua conclusione per la quale l'uso pubblico della ragione aveva a che vedere con lo scrivere di ogni autore "nella sua propria persona" . Che cosa sarebbe successo se gli agenti mediatori della stampa si fossero appropriati di quella persona - come facevano così spesso, in un mondo piratesco? Kant osservava che un libraio che intraprende un'edizione deve avere l'obbligazione di essere fedele. Questa fedeltà, aggiunse, era facilitata dalla clausola dei diritti esclusivi. Tuttavia, egli concedeva, decenni di tentativi di mettere la ristampa fuori legge invocando una qualche specie di proprietà erano falliti. E sarebbero sempre falliti, Kant sostenne ora, perché la proprietà dell'autore, se mai esisteva, era inalienabile - era l'estensione inseparabile del soggetto creativo. In ogni caso, un vero diritto di proprietà avrebbe eliminato la stessa editoria, per la semplice ragione che nessun acquirente avrebbe mai accettato la responsabilità per l'uso della sua copia come modello di una ristampa. Invece, Kant tornò alla sua idea che un vero autore esercitasse la libertà di parola nella sua propria persona.Egli ribadì questo principio, notando che un libro non era semplicemente un contenitore passivo di significato, ma un veicolo per un processo di comunicazione dinamico. L'editore era propriamente paragonabile a uno "strumento" in questo processo - qualcosa come un altoparlante. Ne seguiva che il torto della ristampa non aveva nulla a che fare con la proprietà. Quello che la rendeva un reato era il suo mescolare l'autorità con la mediazione. In effetti, era una specie di ventriloquio: il pirata dirottava la voce di un altro. Ancor peggio, i pirati obbligavano gli autori, piuttosto che il contrario - li rendevano responsabili di significati trasmessi senza il loro consenso (sotto il reazionario Federico Guglielmo II, la censura tornò di nuovo in auge e Kant stesso entrò in collisione con la polizia proprio su questo). Era la violazione dell'identità dell'autore che rendeva la pirateria potenzialmente fatale per la stessa idea di sfera pubblica e quindi per l'illuminismo stesso. Il fatto che la ristampa diffondesse il sapere in modo più ampio, economico e accessibile era vero ma oltre il punto. Una simile conoscenza non sarebbe stata più pubblica perché gli autori non sarebbero più stati privati».

[126] Un simile argomento potrebbe essere usato estensivamente per costruire una teoria kantiana della tutela dei dati personali: pubblicare senza autorizzazione la mia - per nulla originale - lista della spesa mi fa entrare in un rapporto col pubblico al quale non ho dato il mio assenso.

[127] Kant chiama questo diritto, che mi permette di oppormi se qualcuno interferisce col godimento della mia proprietà, «diritto negativo personale» (083).

[128] Si veda D. de Kerckhove The Transformation of Language, Media and Consumer in the Digital Era, Fiab Forum, 2006, p. 31 http://www.iabforum.it/media/pdf_relatori/De_Kerckhove.pdf.

[129] Nel saggio sul diritto di mentire del 1797 (428), Kant, affermando che «la verità non è un possesso sul quale all'uno possa essere accordato il diritto e all'altro rifiutato», mostra quanto sia lontano da una concezione proprietaria dell'informazione. Se il sapere fosse privato, il potere politico ed economico diverrebbe incontrollabile.

[130] Su questo tema si veda per esempio P. Lévy, Cybercultura, Milano, Feltrinelli, 1999, trad. it. di D. Feroldi (Cyberculture, Paris, O. Jacob, 1997), pp. 18-21.

[131] Precisamente nella Dottrina del diritto § 31, II. La traduzione del passo, col titolo «Che cos'è un libro?», è disponibile nell'appendice della presente annotazione.

[132] Per capire quanto Kant sia lontano dalla proprietà intellettuale è utile confrontarlo con le tesi dell'articolo di Fichte uscito sulla Berlinische Monatsschrift del maggio 1793 («Beweis der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks. Ein Räsonnement und eine Parabel»; la mia traduzione italiana, corredata dal testo originale, è disponibile sul sito del Bollettino telematico di filosofia politica, 2005 http://purl.org/hj/bfp/42). Fra Kant e Fichte, a dispetto di quanto credeva lo stesso Fichte, ci sono almeno quattro importanti differenze:

  • mentre Fichte fonda la sua proprietà intellettuale sull'originalità dell'espressione, Kant non menziona mai questo elemento, e argomenta l'illegittimità della ristampa sulla base del diritto dell'autore di scegliere se e come rivolgersi al pubblico;

  • Fichte equipara il diritto d'autore alla proprietà privata; per Kant, di contro, il concetto di proprietà milita sistematicamente a favore della libertà di copia;

  • per Fichte il ristampatore è un ladro e deve essere punito penalmente; per Kant, invece, è semplicemente un mandatario senza mandato, tenuto a un mero risarcimento dei danni.

  • mentre Fichte ignora il diritto del pubblico, Kant lo prende sul serio, tanto da trattare il diritto dell'editore come strumentale rispetto al rapporto fra autore e pubblico.

Per un approfondimento sul tema si veda anche il mio Il mercante e il califfo: politiche della proprietà intellettuale Sifp, 2006, http://hdl.handle.net/10760/9861

[133] Cioé: «si presenta come mandatario senza mandato». [N.d.T.]

[134] Sul senso di questo termine si veda il commento qui sotto. [N.d.T.]

[135] Cfr. la locatio conductio del diritto romano. [N.d.T.]

[136] Diritto di dimora. [N.d.T.]

[137] Si veda la mia recensione alla versione di R. Pozzo citata nella nota dedicata alla traduzione del termine Nachdruck.

[138] F.Galgano, Diritto privato, Padova, Cedam, 1987, pp. 22 e 84.


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