Bollettino telematico di filosofia politica

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Annotazione della curatrice

Sommario

Una polemica politica
La veridicità come dovere incondizionato
La responsabilità del mentitore
Dal privato al pubblico

Una polemica politica

Questo testo rimane nella memoria dei più per la tesi a cui si oppone Benjamin Constant: se un assassino alla caccia di un nostro amico che si è nascosto da noi ci chiede informazioni su di lui, per Kant la legge morale proibisce di mentire per salvarlo. Il filosofo prussiano, non riuscendo a concepire la possibilità di un conflitto fra doveri, sembra vivere in un mondo speculativo insensibile alla tragedia. 317 Già nel Detto comune (300 e nota), Kant, riflettendo sul casus necessitatis, sosteneva che, fra il dovere perfetto di denunciare un delitto e il dovere imperfetto 318 della benevolenza nei confronti del padre che ne é colpevole, il figlio deve sacrificare il secondo al primo. Analogamente, c'è una risposta razionale al conflitto fra il dovere di dire la verità e la benevolenza per gli amici. L'argomento di Kant contro la menzogna si racchiude dunque nella storia, per molti lettori tragica, di un'amicizia tradita.

Platone insegnava a diffidare anche delle storie che lui stesso raccontava. Il fascino della narrazione induce ad accettare come esemplari delle vicende particolari che colpiscono e commuovono al di sotto della soglia del senso critico. Se però la filosofia si riducesse a narrazione, non ci sarebbe nessuna differenza fra filosofi e spin doctors. La ricerca di una prospettiva razionale - soprattutto quando produce tesi sgradevoli - serve a costruire, o a tentare di costruire, un punto di vista indipendente, al di là degli interessi delle parti in causa. Il filosofo che non cercasse questo punto di vista non avrebbe più l'autorità per svolgere la funzione assegnatagli dall'articolo segreto della Pace perpetua.

Se in uno stato il potere politico cominciasse a discriminare una parte della popolazione, prospettando alla fine la possibilità dello sterminio, che cosa dovrebbe fare un filosofo che prendesse sul serio il suo compito? Dire la verità, denunciando che il suo paese cammina sulla strada del dispotismo, oppure suggerire ai concittadini di rassegnarsi, perché in ogni caso sarà loro moralmente lecito nascondere gli eventuali amici perseguitati, mentendo ai sicari del regime per proteggerli? La prima strategia, quella della contestazione pubblica, è politica e universale, perché mira a proteggere tutti i discriminati allo stesso modo; 319 la seconda, quella dell'elusione e della menzogna, è privata e particolare, perché protegge solo i perseguitati che hanno la fortuna di imbattersi in persone disposte ad aiutarli. 320 Non è la strategia di un popolo regale, ma di una moltitudine asservita, in cui alcuni singoli, resi incapaci di agire politicamente, tentano di aggirare la tirannide, perché non possono affrontarla a viso aperto. In una simile situazione, mentre gli individui isolati si attribuiscono il diritto di mentire, questo stesso diritto può venir usato, con più forza, anche dal tiranno, per rendere i suoi sudditi ancora più deboli, ignoranti e soli.

Sia la storia narrata da Constant sia questo racconto presentano la medesima situazione: degli assassini alla porta ci chiedono di dire la verità e tradire gli amici. Ma nel primo caso la vicenda sembra una storia privata, che ci fa simpatizzare con il mentitore; nel secondo, la narrazione di un uomo sconfitto che cerca di fare particolaristicamente e di nascosto quanto il suo popolo non ha saputo o voluto compiere in pubblico e per tutti.

Il contesto della polemica fra Kant e Constant è politico, non privato. In Des réactions politiques Constant intende - similmente al Kant del Detto comune in polemica con Burke - difendere i princípi della Rivoluzione francese dalle tentazioni reazionarie che si facevano forti dell'esperienza del Terrore. Il suo argomento è il seguente: non bisogna lasciarsi spaventare dall'astrattezza dei princípi universali, che li fa oscillare fra l'inefficacia e la sovversione, perché essi diventano attuabili solo tramite princípi intermedi applicativi. Per esempio, il principio per il quale un essere umano è vincolabile solo da quelle leggi alla cui formazione ha contribuito può essere applicato anche in stati molto grandi grazie alla mediazione della rappresentanza (428). Analogamente. il dovere di dire la verità, se attuato nella sua universalità astratta, distruggerebbe la società. Questo, però, non implica che vada rinnegato: è sufficiente applicarlo tramite un principio intermedio restrittivo, per il quale nessuno ha diritto alle verità che danneggiano altri. 321 Kant e Constant militano dalla stessa parte della barricata, a favore dei princípi razionali e contro i reazionari e il loro sedicente empirismo. Il loro disaccordo riguarda soltanto l'uso della verità in politica: per Kant la veridicità è un principio irrinunciabile e irriducibile, per Constant può e deve essere somministrata con una certa latitudine.

La veridicità come dovere incondizionato

Constant aveva sostenuto che il dovere di dire la verità non è incondizionato, perché bisogna tener conto, preliminarmente, del danno che la verità può arrecare ad altri. Noi abbiamo diritto alla verità solo nella misura in cui essa non nuoce gli altri. Questa delimitazione funge da principio intermedio perché il diritto alla verità, applicato nella sua astrattezza, non sia distruttivo per la società (425).

Kant risponde distinguendo, nella verità, un aspetto oggettivo e uno soggettivo.

  • in senso oggettivo, la verità è l'essere vero o falso di una nozione;

  • in senso soggettivo, la verità è più propriamente la veridicità o sincerità di una persona.

La verità nel primo senso non può essere oggetto di un diritto. L'essere vero o falso di una tesi non è determinato dal nostro volere e dunque non appartiene al territorio del diritto, che comprende solo cose e azioni dipendenti dalla nostra volontà. Dalla nostra volontà dipende però la nostra veridicità, cioè la nostra disposizione a dire quello che effettivamente abbiamo in mente. Più rigorosamente, dunque, ci si può chiedere se ci sono dei casi in cui la menzogna sia facoltativa o addirittura obbligatoria; cioè:

  1. se si abbia la facoltà di mentire quando non si può evitare una risposta

  2. se si abbia il dovere di mentire quando, se costretti ingiustamente, la bugia serve a sventare un delitto.

Nella Metafisica dei costumi (238) Kant sostiene che, per avere una menzogna in quanto fattispecie giuridicamente perseguibile. non è sufficiente un discorso insincero, a cui l'interlocutore resta libero di credere o no: occorre che la falsificazione sia volta a privarlo di quanto gli spetta di diritto. Kant adduce, come esempio, quello di un truffatore che ottenga, da un'altra persona, qualcosa che non gli sarebbe dovuto, facendole credere con l'inganno di avere con lei un vincolo contrattuale. Kant avrebbe potuto agevolmente usare una simile definizione restrittiva - mendacium est falsiloquium in praeiudicium alterius - per sottrarsi alla critica di Constant: la bugia detta all'assassino non è una menzogna in senso giuridico, perché non gli toglie nulla di quanto gli spetta. Ma questa via viene esplicitamente scartata, a favore di una posizione più difficile: la menzogna, anche quando non danneggia gli esseri umani in carne e ossa delle cui relazioni si occupano i giuristi (426), è sempre una lesione dell'umanità in generale.

La possibilità del diritto riposa sulla nostra affidabilità, cioè sulla nostra disposizione a essere sinceri nei nostri impegni. L'ordinamento giuridico, infatti, si fonda su un contratto ideale, nel quali le parti delegano a un giudice terzo il potere di dirimere le controversie. Se questo contratto fosse stipulato con delle riserve mentali, se la parola dei contraenti non fosse attendibile, non sarebbe possibile uscire dallo stato di natura, perché verrebbe avvelenata la stessa «sorgente del diritto» (426). 322 Il potere può essere esercitato imparzialmente, cioè può porsi al servizio del diritto, solo se si riduce entro la forma della pubblicità: come ci si potrebbe altrimenti fidare dei propri concittadini e dei propri governanti?

Mentre Kant e Constant discutevano, la legittimità secolare del potere era incrinata dalle fondamenta e il mondo era scosso dal terrore rivoluzionario, dalla violenza della reazione e da tentazioni autoritarie di nuovo conio. Un filosofo che avesse fondato, come nell'articolo segreto della Pace perpetua, la propria autorevolezza sulla propria indipendenza, non avrebbe potuto consigliare di mentire per l'interesse degli amici senza degradarsi a parte in causa, e senza aprire la strada ai moralisti politici pronti ad approfittare della situazione. Chi vive in tempi confusi, deve rimanere saldo sui princípi, per non legittimare forme di manipolazione e prevaricazione, a dispetto delle sue buone intenzioni. Chi mente a fin di bene deve coerentemente riconoscere la stessa facoltà anche agli altri, esponendo tutti alle mistificazioni del potere: la politica non può rinunciare alla trasparenza, se vuole rimanere entro i limiti della giustizia.

La risposta alla prima questione è dunque che, se assumiamo la prospettiva universale della legge morale e non quella particolare dell'amicizia, non si ha mai la facoltà di mentire perché ciò nega in radice la possibilità stessa del diritto.

Si potrebbe obiettare che, con la nostra veridicità, provochiamo un danno a chi potrebbe essere salvato da una nostra bugia, per voler osservare rigorosamente la legge morale. Non c'è, qui, un dovere di mentire? Questo è il tema della seconda questione.

La responsabilità del mentitore

Perché il danno astratto causato dalla menzogna al diritto in generale deve prevalere su quello, assai concreto, provocato dall'assassino a cui si sceglie di dire la verità? Kant adduce due ragioni:

  • Bisogna distinguere (428) l'azione libera con cui qualcuno fa ingiustizia a un altro (laedit) dalla catena di circostanze accidentali rispetto all'azione iniziale al suo termine produce un danno a qualcuno (nocet): è possibile essere moralmente responsabili soltanto della prima, perché la seconda è sottratta a ogni nostro controllo. 323

  • Se trasgrediamo la legge morale, mentendo all'assassino allo scopo di imbrigliare la sequenza di circostanze accidentali che può condurre all'uccisione del nostro amici, ce ne assumiamo la responsabilità, esponendoci al rischio di dover pagare per i nostri eventuali errori di valutazione (427).

Chi mente prende sulle sue spalle, volendolo controllare, il fardello dell'irrazionalità etica del mondo; chi dice la verità circoscrive la responsabilità alla sua azione a quanto sta in lui - seguire o no la legge morale -, e lascia la responsabilità delle conseguenze o agli altri, quando si inseriscono nella catena con le loro scelte libere, o al caso. La colpa dell'omicidio non è di chi dice la verità, bensì, moralmente, dell'assassino, e, deterministicamente, delle circostanze.

A prima vista, l'uomo sincero che non protegge l'amico potrebbe essere assimilato al politico dell'intenzione (Gesinnung) weberiano e criticato come tale: un politico che scarica la responsabilità dell'esito delle sue azioni sul mondo e sugli altri, 324 anche quando, come nel caso esemplare di cui discutono Kant e Constant, le conseguenze del suo comportamento sarebbero facilmente prevedibili. Se, però, il politico dell'intenzione limita la propria responsabilità alla cerchia della sua coscienza, anche chi mente per salvare l'amico non estende la propria responsabilità al di là dei confini del suo giardino, e non si chiede che mondo sarebbe quello in cui la verità fosse ad accesso limitato, perché la menzogna è facoltativa o addirittura doverosa.

«La verità non è un possesso sul quale all'uno possa essere accordato il diritto e all'altro rifiutato» (428): se fosse lecito o addirittura doveroso fare discriminazione nell'accesso all'informazione per benevolenza nei confronti di se stessi o di altri, si chiuderebbero, forse, le porte del giardino, ma si spalancherebbero quelle dell'inferno. 325

Se mentire fosse doveroso quando la verità rende infelice qualcuno, a chi è al potere diverrebbe lecito sottrarsi a tutti i controlli, con il semplice pretesto di un qualche pericolo reale o immaginario, sottoponendo a censura l'uso pubblico della ragione, soffocando la libertà della penna, cancellando l'articolo segreto della Pace perpetua. L'idea di una trasparenza ad accesso riservato è una contraddizione in termini: la trasparenza è universale o non è. Una concezione proprietaria della verità potrebbe anche coerentemente aggiungere alla censura politica la censura economica, facendo venire meno il diritto del pubblico a ricevere i discorsi di chi gli si indirizza.

Per condividere la prospettiva di Kant - irresponsabile per gli amici, ma responsabile del mondo - bisogna uscire dal particolarismo della narrazione per assumere un punto di vista che si sforzi di essere universale e indipendente. Comunicativamente, la scelta di un esempio privato per presentare un tema di natura pubblica è certamente infelice; filosoficamente, invece, è molto appropriata, perché costringe a confrontarsi con la situazione in cui dire la verità è più difficile: quella in cui siamo così emotivamente coinvolti, così concentrati sul nostro particulare, da dimenticare il mondo, oltre il giardino.

Dal privato al pubblico

Nella seconda parte della Metafisica dei costumi, che tratta della dottrina della virtù, Kant dedica alla menzogna un intero paragrafo (429-431), annoverandola fra le violazione dei doveri perfetti verso se stessi in quanto entità morali. Chi mente - scrive Kant - annulla la propria dignità di agente morale, trasformandosi in una maschera vuota, perché con la sua falsità deliberata nega il senso stesso della sua capacità di comunicare i suoi pensieri (429). Una ragione ingannevole, al servizio di desideri e interessi particolari, smetterebbe di essere autonoma, degradandosi a furbizia. La menzogna intesa in questo senso, però, riguarda esplicitamente l'etica e non il diritto, almeno fino a quando non viene leso un diritto altrui. Come già visto, il diritto altrui, in questo caso, è quello in gioco nei rapporti fra persone particolari: così avviene, per esempio quando a qualcuno è sottratto del denaro per l'inganno di un truffatore.

Il Diritto di mentire organizza la materia in modo diverso: la menzogna, anche quando non produce una lesione giuridica particolare, comporta sempre una lesione giuridica universale perché distrugge la fiducia, cioè la condizione di possibilità dello stesso ordinamento giuridico. Il diritto, qui, non è quello privato, che per Kant può aver luogo anche senza una società civile, 326 bensì quello pubblico: non si parla del diritto nei rapporti fra gli individui, ma della sua garanzia da parte di istituzioni pubbliche, la cui stessa esistenza riposa sulla sincerità dell'impegno a rispettare le loro pronunce.

Quando si passa dalla dottrina teoretica del diritto alla politica, i princípi applicativi o intermedi che servono alla sua attuazione nel mondo dell'esperienza non possono tradire la forma del diritto (429). Questo vale anche quando non si commette materialmente ingiustizia verso un individuo particolare: la mancanza di trasparenza, l'arbitrio incontrollabile del potere, è di per se stesso formalmente - strutturalmente - ingiustizia.

Una lettura casistica di questo impopolare testo di Kant avrebbe forse potuto mostrare che le occasioni in cui non si può evitare di dire la verità sono effettivamente molto poche, ma avrebbe celato il senso politico (429) delle parole del filosofo:

  • se siamo in una società civile o ci accingiamo a costruirne una, non possiamo mentire senza distruggere la struttura stessa del diritto pubblico;

  • se siamo nello stato di natura, la menzogna è una lesione giuridica solo nel suo senso ristretto, privatistico: chi, qui, mente per salvare gli amici deve essere consapevole che con il suo gesto sta rinunciando a costruire una società civile, o sta prendendo atto che la società civile non esiste più, e sta esponendo se stesso a un'analoga possibilità di prevaricazione altrui.

Secondo la conclusione del corollario alla seconda parte del Detto comune (306), un capo di stato che si proclamasse al di sopra della legge e giustificasse il proprio dominio esclusivamente con la forza, legittimerebbe i suoi sudditi a usare la forza contro di lui. Infatti, gli argomenti logico-giuridici contro il diritto di resistenza valgono solo finché siamo in uno stato di diritto, cioè solo finché il sovrano fonda il suo potere sulla forza della legge e non sulla legge della forza. Secondo il Diritto di mentire, la menzogna distrugge la radice stessa del diritto. Che cosa dovremmo pensare, allora, di uno stato che, controllando i mezzi di comunicazione, attribuisse a se stesso il diritto di mentire, cioè di informare i propri cittadini esclusivamente nel modo conforme all'interesse di chi è al potere? Sarebbe ancora uno stato di diritto?

A questa domanda, che nasce dall'esperienza dei totalitarismi del Novecento e che noi, in Italia, oggi, siamo in condizione di ripetere, Kant non può esplicitamente rispondere. Nei suoi scritti, però, si trova una risposta implicita: in casi come questi il filosofo - se vuole essere tale - deve alzarsi in piedi e dire la verità.



[317] V. Mathieu, «La filosofia politica di Kant», Consulta filosofica italiana, http://consultafilosoficaitaliana.unipr.it/Kant1.doc, p. 3.

[318] Si ha un dovere perfetto quando la legge morale è in grado di prescrivere un'azione determinata; un dovere imperfetto quando essa riesce a prescrivere solo la sua massima (Metafisica dei costumi, 390). Per esempio, è imperfetto il dovere di coltivare i propri talenti: la ragione può coerentemente prescriverlo, pensando un mondo regolato interamente dalla sua legge, ma può essere messo in atto tramite un'amplissima pluralità di azioni. Un dovere imperfetto, essndo privo di un nesso con un'azione determinata, non può essere un dovere di diritto, ma solo di virtù.

[319] Si veda quanto racconta H.Arendt (La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 178 ss.) a proposito dell'aperta opposizione danese allo sterminio degli ebrei.

[320] Secondo C. Korsgaard («The right to lie: Kant on dealing with evil». Philosophy and Public Affairs, 15/4, 1986, p, 5, http://dash.harvard.edu/handle/1/3200670). nessun assassino seriamente intenzionato si presenterebbe alla nostra porta dichiarandosi tale. Questo, in realtà, non è esatto: l'intenzione di uccidere può essere resa pubblica in tutte quelle situazioni nelle quali essa non nasce da un progetto privato, ma da una linea di condotta politicamente deliberata, come nel caso di persecuzioni religiose o razziali promosse dallo stato, oppure socialmente apprezzata, come nel caso del delitto d'onore. In questo senso, anche se il caso esemplare di cui si discute sembra privato, la materia del contendere è essenzialmente politica. L'impostazione che le si addice è dunque quella del diritto pubblico, come nota correttamente J. Weinrib («The Juridical Significance of Kant's 'Supposed Right to Lie'», Kantian Review, 13/1, 2008, pp. 145 ss. http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1585425).

[322] La menzogna, anche in questo caso, è una contraddzione pragmatica, in quanto, nel momento stesso in cui si reclama il diritto di mentire, si nega lo stesso concetto del diritto, il quale si regge sulla effettività degli impegni. Sul tema si veda G. Azzoni, «Menzogna come contraddizione pragmatica», In Verità e menzogna: profili storici e semiotici, Università degli Studi di Trento, 26-27 aprile 2007, http://cfs.unipv.it/opere/azzoni/menzo.doc.

[323] A questa distinzione corrisponde, nella polemica con Garve del Detto comune, la distinzione fra il bene come moralmente giusto e il bene come utile, il primo chiaro perché fondato su una legge incondizionata della ragione e il secondo incerto e condizionato perché derivante da esperienze particolari e contingenti.

[324] M. Weber, Politik als Beruf, München und Leipzig, Duncker & Humblot, 1919, p. 57, http://de.wikisource.org/wiki/Politik_als_Beruf.

[325] In questa prospettiva, la critica di G. Simmel (Sechzehn Vorlesungen gehalten an der Berliner Universität, München, Duncker & Humblot, 1913, p. 117, http://www.archive.org/details/kantsechzehnvorl00simm), secondo la quale gli esempi di Kant sono pensati entro un ambiente semplificato e piccolo borghese, si addice di più ai sostenitori del diritto di mentire, che non sanno vedere il collegamento fra l'universale e il particolare.

[326] Metafisica dei costumi, 242.


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